Sull’ermeneutica di Gadamer

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di Pasquale Martucci

Hans-Georg Gadamer è il filosofo che ha affermato l’universalità dell’ermeneutica, rilevando il “primato della dimensione storico-linguistica rispetto a ogni forma possibile di pensiero e di sapere”. Ciò per mettere in luce il comprendere e mostrare come esso sia il modo d’essere dell’esistenza stessa.

Per ermeneutica si intende l’arte, la tecnica e l’attività di interpretare il senso di testi antichi, leggi, documenti storici e simili. Le origini risalgono al mondo classico, per stabilire l’esatto senso dei testi letterari cercando di distinguere le parti autentiche e ricostruirne l’organicità della struttura e del linguaggio.

Per Gadamer è possibile interpretare solo attraverso pre-comprensioni o pre-giudizi: la mente non è una tabula rasa, ed allora ciò che si deve comprendere è già in parte compreso. Questo tipo di processo è definito “circolo ermeneutico” ed è una condizione positiva del conoscere, in quanto unica maniera per accedere all’interpretato.

Tale teoria porta a una riabilitazione dei pregiudizi, dell’autorità e della tradizione, sostenendo che i pregiudizi non sono necessariamente negativi o falsi, ma esistono anche giudizi legittimi che fanno parte della nostra realtà di esseri sociali e storici.

Altro elemento è il rapporto con l’autorità, che non deve implicare obbedienza cieca e abdicazione alla libertà, ma è un atto di riconoscimento dei propri limiti e dell’intelligenza dell’altro, concedendo fiducia al giudizio altrui.

Il lavoro di interpretazione si configura come un dialogo tra presente e passato e una fusione degli orizzonti. Questo passaggio di Gadamer presuppone due cose: da un lato l’importanza del linguaggio (esso è tutt’uno con la nostra esperienza) e dall’altro l’interpretazione che avviene attraverso ambiti relazionali. Per arrivare ad una definizione è necessario il procedimento di “autodisvelamento”, che avviene attraverso un’ermeneutica costitutivamente aperta e strutturalmente parziale.

L’interpretazione di un testo (poetico, letterario, giuridico, religioso, ecc…) ha assunto particolare rilevanza filosofica nel Novecento per opera delle correnti storicistiche, fenomenologiche ed esistenzialistiche. Se infatti l’ermeneutica è stata concepita per secoli come una scienza o una tecnica ausiliare rispetto alla filologia, alla teologia o alla giurisprudenza, nella misura in cui il linguaggio si presta a molteplici interpretazioni, già con il Romanticismo, e soprattutto con Schleiermacher si comincia a vedere qualcosa di più profondo e autonomo come sforzo di comprensione che va molto al di là del testo. Con Dilthey, il problema viene ripreso e ampliato nel quadro di una “critica della ragione storica” volta a fondare la legittimità e l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto alle scienze della natura, cui si appellava il positivismo dominante. Per Dilthey l’ermeneutica ha una funzione centrale e portante nelle scienze dello spirito, il cui oggetto può esser colto adeguatamente solo attraverso un’interpretazione che realizzi in modo unitario e intuitivo il nesso tra vita, espressione e comprensione.

Eppure Dilthey aveva circoscritto il termine all’interno del problema delle scienze dello spirito e impostato quindi in senso prevalentemente metodologico. La svolta decisiva verso l’ermeneutica filosofica si ha con la fenomenologia di Husserl e con le tesi di Heidegger. Nella sua polemica contro ogni forma di oggettivismo e naturalismo, Husserl mette in luce il carattere intenzionale della coscienza, per cui ogni percezione è sempre legata a un orizzonte e il giudizio rinvia a tutta una serie di presupposti precategoriali. Heidegger, già in Essere e tempo, intende l’interpretazione come il modo fondamentale di esistenza, essendo l’uomo precisamente un continuo autointerpretarsi e interpretare l’essere. Nella misura in cui l’esistenza è continua progettazione, va considerato il problema della verità.

Il disvelarsi della verità presuppone sempre un’anticipazione di senso, una sorta di pre-comprensione che è al tempo stesso il segno della sua intrinseca storicità. È questo il cosiddetto circolo ermeneutico per cui l’interpretazione è un processo che va continuamente dal tutto alle parti e viceversa: soltanto in riferimento alla struttura dell’esistenza come “esserci-nel-mondo” si rivela il senso di ciò che l’esistenza viene storicamente scoprendo e viceversa.

Con l’evolversi del pensiero di Heidegger dalla prospettiva fenomenologico-esistenziale di Essere e tempo verso una prospettiva ontologico-linguistica, l’ermeneutica ha acquistato ancor maggiore rilevanza filosofica. Il motivo heideggeriano del rapporto tra arte e verità, per cui l’arte è intesa come l’accadere della verità, porta con Gadamer a una revisione critica del concetto di coscienza storica che sfocia nell’affermazione dell’universalità dell’ermeneutica.

La comprensione storica non consiste nella semplice ricostruzione del senso di un testo o di un momento del passato, come voleva lo storicismo, ma in una continua fusione di orizzonti dove, proprio come accade rispetto all’arte, vengono sempre di nuovo messi in gioco tanto l’opera quanto l’interprete in un processo sempre incompiuto e infinito qual è appunto il linguaggio.

L’ermeneutica di Gadamer possiede un carattere non strutturale, analitico e descrittivo, perché sviluppa la comprensione ontologica di Heidegger all’interno di una ermeneutica che egli stesso definisce “dialettica” o “dialogica”.

Il rapporto tra “esistenza storica” e “comprensione ermeneutica” viene stabilito da Gadamer sulla base di una precomprensione non solamente esistenziale, ma sul fondamento di “pre-concetti” conoscitivi legati alla concreta storicità dell’esistenza, e di cui nessun cammino autenticamente ermeneutico si può liberare con un salto in una impossibile purezza concettuale. Ancor più di Heidegger, Gadamer approfondisce la questione della “coscienza storica”, come coscienza non solo dei presupposti esistenziali della comprensione, ma di tutti quei fattori e quelle componenti che intervengono in modo decisivo nella nostra “comprensione storica”, e che stabiliscono dei rapporti tra la nostra presente attualità ed il passato storico.

Gadamer giunge ad affermare che la nostra pre-comprensione è pienamente inserita in una “tradizione” culturale, la quale ne costituisce il vero orizzonte storico. I nostri pregiudizi non sono qualcosa di astratto o di puramente ontologico, ma sono prodotti da una storia che è, appunto, la “tradizione”. E per questo loro innestarsi nella tradizione storica, essi non si rivolgono al passato quasi sorgendo dal nulla della nostra presente soggettività, ma essi riconoscono, nella storia, proprio quegli elementi della tradizione che vi sono presenti e che l’hanno mediata fino a noi.

Il circolo ermeneutico si fonda su una indistricabile relazione di linguaggio e storia, di parole e di mondo della vita, giacché ogni comprensione di una qualsiasi realtà attraverso la lingua è sempre condizionata dalla sua precomprensione storica ed esistenziale. Ogni comprensione storica, estetica, culturale, filosofica è subordinata all’“appartenenza storica”, ovvero ad una tradizione culturale e linguistica che ne costituisce l’orizzonte di comprensione.

La nozione di “esperienza linguistica” presuppone l’assoluta finitezza del linguaggio: esso non rappresenta mai l’ultimo approdo, l’appropriazione ultima, la conclusione definitiva, ma appunto il presupposto dell’apertura e della differenza.

Una considerazione va all’ermeneutica di Ricoeur che, nel volume: Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), elabora una concezione per unire la riflessione sull’interpretazione del testo e la prospettiva della psicanalisi, assunta come interpretazione del linguaggio inteso come simbolo di qualcosa di più profondo dell’esteriorità delle parole e dei segni linguistici. L’ermeneutica per Ricoeur è una “teoria dei simboli”, la quale sappia usare insieme, seppure in maniera critica e distaccata, sia gli apporti forniti dalla psicanalisi per l’interpretazione dei simboli, sia quelli offerti dalle nuove e diverse scienze della lingua. Una rinnovata attenzione viene dedicata al simbolo religioso, che esprime un desiderio nuovo di essere interpellato oltre il silenzio e l’oblio che la manipolazione dei segni vuoti e la costruzione dei linguaggi formalizzati fanno proliferare.

L’ermeneutica per Ricoeur consiste pertanto in un processo perenne di restaurazione del senso, di reinterpretazione e di reperimento del senso originario di ciò che giunge a noi, soprattutto di ciò che giunge dal passato, dalla nostra tradizione culturale, la quale ci presenta una grande messe di dati, di contenuti e di simboli da interpretare. Il simbolo rompe, in un certo senso, l’uso comune del linguaggio normale, e la sua presenza testimonia il bisogno di altro, il bisogno di un trascendimento anche di sé che si esprime nell’arte, nella filosofia, nella religione, e che assume espressione soprattutto nella figura della metafora, la quale esprime la vera creatività dell’uomo.

In questa prospettiva, l’ermeneutica di un testo, in particolare del testo biblico, deve articolarsi in diversi stadi, capaci di garantirne la verità: dai metodi filologici, letterari e storici, che garantiscono l’oggettivo significato del testo, fino ai metodi ermeneutici che attualizzano il significato del testo per la vita dei lettori, che in tal modo sono interpellati dal testo a far emergere, dai significati, una rinnovata comprensione di sé.