Storia di un pastore che divenne operaio e militante comunista nell’Italia del dopoguerra. Ideali e sogni infranti.

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“Le pecore riposano all’ombra della quercia, io ho scelto di sedermi al riparo di un ulivo secolare e mi sorprendo a scoprire che le sue foglie si muovono lentamente, anche con l’aria ferma. Poi ho capito, il vento non c’entra niente, quello è il respiro del mondo …” E’ delicato il tratto di Giuseppe Colosante nel suo quarto romanzo “Il pastore” ( Collana ILMIOSPAZIO-Cicorivolta ed.), presentato al Teatro Ghirelli, con l’intervento della scrittrice Valeria Alinovi, della regista Giustina Laurenzi, dell’ avvocato Vittorio Salemme.

Se in “Forge di Mela” Colasante parla di due donne che dalla Basilicata giungono a Salerno alle prese con una nuova vita, in questo suo ultimo romanzo narra di un pastore, il cui nome ci sarà rivelato solo nel finale, che da Castiglione del Genovesi giunge a Salerno divenendo operaio, imprenditore, militante politico. E’ un romanzo di formazione questo, dove il protagonista conserva gelosamente una “ struggente nostalgia di quelle giornate che trascorrevo sdraiato all’ombra di un faggio … e mi divertivo a prevedere che forma avessero preso quelle nuvole bianche che a tratti mi sembravano la fedele riproduzione del mio gregge, la sola differenza consisteva nel fatto che le mie pecore avevano come sfondo il colore verde, il colore dell’erba …”

La quiete del suo gregge fagocita il lettore in una dimensione fatta di semplicità, di valori, di sogni. E’ questo il cammino di un ragazzo verso l’amore e verso il lavoro … “ gli operai si lamentano della fatica e odiano il lavoro che fanno … sono fieri ed orgogliosi degli oggetti che escono dalle loro mani callose … io non ho mai odiato il mio vecchio mestiere, l’ho solo amato, forse perché ero all’aria aperta e non avevo né capi e né padroni e quello è un lavoro che rende liberi”. Il lavoro diviene affermazione dell’individuo e forma di riscatto, cammino individuale verso l’autonomia e la realizzazione dei propri sogni.

Il “pastore” di Colasante non è solo il cammino di Giuliano, questo il nome del pastore, ma è il cammino di una città del meridione e di una Italia tutta all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in una fase di ricostruzione, quando, in ginocchio volgeva lo sguardo al futuro. Ed al miglioramento di se stesso ed al futuro è volto lo sguardo di questo pastore, con il sogno di sposare la sua fidanzata, avere un lavoro, una famiglia.

Sogni candidi di un mondo lontano. Sono gli acquerelli inseriti nel testo, di Roberto Visconti, ex Senatore del Partito Comunista, a trasmettere quel lirismo che rende gli acquerelli illustrazioni da fiaba. La semplicità del romanzo conduce per mano in una Salerno e in un territorio animato da comitati, striscioni e manifestazioni di movimenti politici e di lotte operaie, dove la diffusione di volantini politici diventa un modo, per gli operai, per far sentire la propria voce “ … i braccianti non li abbiamo visti, ma siamo certi che sia giunto loro l’eco dello scompiglio che abbiamo prodotto e ne sono stati contenti…”
Il mondo descritto da Colasante stride confrontato con il nostro tempo, tra disoccupazione e cassa integrazione, con individui ripiegati su se stessi, schiacciati sul presente, in una società “liquida”, dove la tecnologia ha favorito il disincanto del mondo, e, alla serenità interiore del pastore di Colasante, i nostri tempi propongono fragili identità convertibili, quando non false. Ai verdi pascoli delle sue greggi la società propone la costruzione di agorà virtuali e la rinegoziazione dei nostri sogni.

La generazione di Colasante è la generazione della Politica vissuta pienamente, della militanza. Egli stesso la scelse per vocazione e proprio per questo, “Il pastore” è per l’autore la storia di una grande amarezza perché conduce a riflessioni malinconiche. “ E’ un libro triste non per la vita da pastore”, afferma Colasante, “ il romanzo è ambientato in una società in cui vi erano problemi gravi, si usciva dalla guerra. Si era in piena ricostruzione ma c’era la speranza … Oggi la speranza non c’è, viviamo una crisi epocale; la prospettiva non c’è. Non c’è un pensiero, una elaborazione.

Penso al Presidente dell’Uruguay che vive con una retribuzione modestissima, donando il 90% a favore di organizzazioni non governative ed a persone bisognose. Forse lui ha la chiave per capire. Noi la dobbiamo ancora cercare”.
Claudia Izzo