Ma la vera anima di Marotta è quella che accoglie in sé il comportamento dei suoi concittadini di fronte alla morte, al dolore, allo scherzo: i napoletani hanno innata la forza che permette loro di sopportare ogni sventura, anche la fatica più improba, anche la fame, ma sanno anche ridere di cuore, sanno cantare, devono cantare per potersi disincantare anche di fronte alle sciagure più. inverosimili e riderne tragicamente e grottescamente, ma mai malvagiamente. La critica dice, a proposito di questa raccolta di racconti: “L’io narrante ricrea in modo originale immagini e figure della memoria personale e collettiva, alternando due atteggiamenti: da un lato l’elegia, nella rievocazione sentimentale di ciò che è stato e ora non è più, e dall’altro t’ironia, nell’osservazione divertita dei modi di vita dei napoletani. Questa duplice disposizione si conferma nello stile, che non è piattamente realistico, ma ora lirico, ora comico, sempre ricco di eccellenti invenzioni metaforiche”
(E. Spera).
Tra le tante figure indimenticabili de L’oro di Napoli ci soffermiamo su qualcuna, per il divertimento, un po’ amaro, nostro e dei lettori. Don Ignazio Ziviello, benché gobbo, era di figura prestante e non era povero, avendo ereditato un piccolo patrimonio, ma ben presto lo dissipò nei bagordi, soprattutto giochi d’azzardo. Gli erano rimasti solo alcuni gioielli, che valevano qualcosa, ma perdette anche quelli giocando a “zecchinetta” con un lupinaio, incontrato per strada. Rimasto completamente al verde, decise di lasciare Grazia, la ragazza che desiderava sposare, per non costringerla ad una vita di miseria. La ragazza, però, era molto innamorata di lui e non volle sentire ragioni, promettendo che insieme avrebbero dovuto mettere su uno stratagemma per sopravvivere. Così cominciarono a girare per le strade con un pianino automatico, divertendo la folla con le note ballabili, che facevano saltellare il gobbo, nell’allegria generale, alimentata vieppiù dalle tante mani che cercavano di toccare la gobba “portafortuna”. Il destino, un giorno, si compì atroce- mente facendo morire in un incidente di strada la povera Grazia con la sua bambina. Il dolore del gobbo fu indescrivibile, pure fu sollevato, col tempo, dalla carità di molti conoscenti. In seguito si dedicò alla costruzione dei fuochi d’artificio, procurandosi una grave ferita, dalla quale si riprese, come avesse avuto sette spiriti, e si mise a vivere come portinaio di uno stabile. Il sottoscala dove egli viveva si allagò e guazzò nel fango per quindici ore, finché non lo tirarono fuori. L’autore asserisce, in una breve postfazione, che Ziviello, divenuto vecchio e sdentato, continuò a vivere suonando la chitarra e dando ai giovani desiderosi di apprendere qualche rudimento dell’arte musicale.
(Continua…)