Lo scrittore-poeta che, con doloroso struggimento, credette e confermò che di fronte all’uomo è sempre DIO. Dio è in agguato nella nostra coscienza in modo inesplicabile e incoercibile, tuttavia l’uomo ama il peccato; ne è esso stesso l’espressione tangibile, la trascinazione e la perdizione dell’anima che, affascinata dal male, raramente si lascia sedurre dal bene.
Questo sembra essere il tema prioritario emergente dalla vastissima produzione letteraria di questo autore di ricca famiglia borghese, nato a Bordeaux nel 1885 ed ivi deceduto nel 1970, educato secondo le regole di un intransigente cattolicesimo.
Ad appena un anno di età perdette il padre Jean Paul e visse con la madre Claire e quattro fratelli, di cui una femmina.
Compì i primi studi presso i Frères de Marie; in seguito frequentò il collegio “GrandLebrun”, presso i padri marianisti a Candéran (Bordeaux).
Nel 1906 conseguì la laurea in lettere nel paese nativo e si trasferì a Parigi, dove superò brillantemente il concorso della “Ecole des Chartes”, che abbandonò ben presto per dedicarsi completamente ai suoi studi letterari.
Generalmente visse tra Parigi e la sua proprietà di Malagar, nelle Landes aquitane. Nel 1932 fu nominato Presidente della “Sociétédes Gens de Lettres”; l’anno seguente divenne Accademico di Francia.
Collaborò spesso con riviste e quotidiani, prendendo posizione nella Guerra Civile Spagnola a favore del governo repubblicano.
Nel 1952 ricevette il premio Nobel per la letteratura.
La sua biografia non presenta note di complicati avvenimenti, ma di generale malinconia, quasi congenita dello scrittore, che i suoi studi mise al servizio di un’indagine costante dell’animo umano, non perché interessato a comporre qualche trattato di psicologia, ma perché enormemente curioso di comprendere quel travaglio interiore precedente e susseguente il peccato, che inevitabilmente macchia il nostro vissuto terreno e scolora la nostra iniziale innocenza.
Come se il nostro destino dovesse andare incontro a spirituali difficoltà estreme nella lotta tra il bene ed il male, ben sapendo che fra questi due termini è sempre vigile e spesso fastidiosa la presenza di Dio, che inutilmente tentiamo di eludere.
Tuttavia è proprio alla pietà divina che l’uomo rimette, alla fine, la sua esistenza travagliata e perduta, sconfitta dalle passioni, ridotta a brandelli, come in sospensione, in attesa di una catarsi intravista attraverso la nebbia della tristezza, da cui finalmente un lampo illumina l’aspetto di Dio che è in noi a indicarci l’unica salvezza.
In Francois Mauriac non c’è ostentazione di mòralismo, ma piuttosto un sentimento di pietà, che è forse l’unico barlume di bene che rende l’autore giudice e dio dei suoi personaggi.
In tutti i suoi romanzi il male, ossia il peccato della perversione, agita creature incredibilmente devastate, eppure vive e dolenti, in atmosfera di suspence, come se il loro destino aspettasse sempre qualcosa per compiersi definitivamente.
Niente in comune con altri scrittori drammatici. Gustave Flaubert affermava: «Madame Bovary sono io!, come per trasmetterci la sensazione piena e trascinante della perversione, assaporata soio idea!mente, ma resa concreta e distruttiva in Madame Bovary.
Al contrario in Mauriac si nota un’indulgenza sentimentale, che è la caratteristica precipua di questo autore, che ama le sue creature peccatrici, le accompagna nel loro spasimo, le avvolge di solitudine tristissima, non le abbandona e, pur perdendole, non le condanna definitivamente.
(Continua…)