Dagli archivi inglesi, nuovi retroscena sull’operazione militare che ha segnato le sorti dell’Europa.
SALERNO, LUCI ED OMBRE SULL’AUTUNNO DEL ‘43
Settant’ anni fa si concludeva in ottobre l’Operation Avalanche iniziata il 9 settembre sulle nostre spiagge.
Per molti è un capitolo chiuso e per questo sembra quasi che nessuno se ne ricordi più. Ormai le immagini dello sbarco di Salerno stanno per scomparire anche dai recessi della memoria delle persone più anziane. Eppure la seconda – per ordine di grandezza – operazione militare più vasta che la storia abbia conosciuto, avrebbe dovuto lasciare qualche traccia più evidente. Così come del resto è accaduto per i segni delle bombe a frammentazione, sganciate a tonnellate dagli aerei degli Alleati e rimasti ancora oggi impressi sulle facciate di molti palazzi della nostra città. Sullo sbarco del 9 settembre 1943, di cui quest’anno corre il 70esimo anniversario, sono stati scritti decine di libri e di articoli, scattate migliaia di fotografie, girati chilometri di pellicola, ma al di là dell’immagine oleografica fornitaci dalla storiografia ufficiale, oggi un’ analisi dei fatti più attenta, basata su documenti inediti e sulle testimonianze dirette dei protagonisti, smentisce molto di quanto è stato scritto fin’ora. E così il racconto sulla sbarco alleato assume ben altra connotazione. Per avere idea delle dimensioni della disastrosa impresa che trasformò in macerie buona parte di Salerno, bisogna fare un passo indietro verso gli anni ’40.
Una volta, parlando con Stalin, Winston Churchill disse:<<Il Mediterraneo è come il ventre molle di un coccodrillo>>. Il primo ministro inglese e i capi di stato maggiore britannici erano certi che attaccare l’Europa passando attraverso l’Italia avrebbe accorciato i tempi della guerra.
Ma gli americani non ne erano convinti del tutto e avrebbero preferito concentrare i propri sforzi su un attacco frontale attraverso la Manica. E’ con riluttanza che accettarono di seguire gli alleati britannici in quella che più tardi verrà riconosciuta dal Generale M. W. Clark (da cui il toponimo cittadino) come: <<la più catastrofica ed azzardata fra le imprese militari in cui un generale possa imbattersi>>.
Fortemente voluta dagli inglesi, l’ “Operation Avalanche”, l’Operazione Valanga, prevista per il giorno successivo alla dichiarazione dell’Armistizio, fu erroneamente soprannominata da Churchill “A walk in the sun” ovvero “una passeggiata al sole”, (che ha ispirato il titolo del film di Lewis Milestone, girato in Italia nel 1945 e distribuito da noi come “Salerno ora x”). Non a caso le testimonianze dell’epoca forniscono un quadro ben diverso di quei giorni.
Gli obiettivi dell’operazione, delineati dal generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo del Teatro di Operazioni Mediterraneo, dal generale Mark Wayne Clark, comandante della V Armata e dal vice ammiraglio Henry K. Hewitt, comandante della Forza Navale d’Impiego Occidentale, erano ben precisi: gli Alleati volevano allontanare i Tedeschi dall’Italia meridionale, impadronirsi delle basi aeree di Foggia, raggiungere Napoli e liberare Roma. Ma l’operazione di sbarco, affrettata e mal concepita, si rivelò una trappola per migliaia di giovani soldati (la media era di 22 anni) mandati allo sbaraglio su quel vastissimo tratto di costa che va da Minori a Paestum.
Il golfo di Salerno, era infatti ben presidiato dalle forze dell’Asse, organizzate e ben equipaggiate, che dall’alto delle colline di Giovi godevano di una posizione privilegiata. Ne risultò una vera e propria carneficina. Fu così che ben presto, dopo la facile conquista dei primi cinque chilometri di fascia interna da parte degli angloamericani, la controffensiva tedesca, organizzata dal generale Albert Kesserling, scatenò la controffensiva sulle truppe che, viste da lontano, sembrarono ai cecchini della Wehrmacht, dei bersagli da tiro a segno. Per gli americani, la situazione, nella zona della testa di sbarco, divenne a tal punto critica da indurre il generale Clark ad apprestare una strategia per una immediata ritirata delle truppe. <<Soltanto grazie all’intervento di tutte le forze aeree riuscimmo a salvare la pelle a Salerno – dichiarerà soltanto alla fine degli anni ’70 il Generale Sir Kenneth Strong, capo della intelligence di Eisenhower – Quella, ritengo, fu la volta che più di ogni altra ci vide ad un passo dalla sconfitta totale>>.
Tuttavia grazie agli enormi rinforzi giunti via terra e via aria, gli invasori di Salerno riuscirono a resistere e i soldati poterono così riprendere la lunghissima marcia per la vittoria che li condusse alle porte di Napoli nell’ottobre del ‘43 ed a Roma nel giugno del ’44. Ma il bilancio delle perdite risultò terribile: solo dalla parte degli Alleati, fra i 100.000 inglesi ed i 70.000 americani sbarcati, si contarono 2.009 morti, 3.501 dispersi e 7.050 feriti. Il numero delle vittime italiane è invece di difficile calcolo ma facilmente intuibile.
Per Salerno, l’autunno del ‘43 fu il culmine di un periodo in cui scarseggiava tutto. Durante i bombardamenti la gente visse nell’oscurità, priva di elettricità, cibo, vestiario e di ogni apparenza di benessere. I rastrellamenti e le svariate angherie da parte di quei tedeschi che si sentirono traditi dall’armistizio dell’ 8 settembre lasciarono finalmente il posto agli aiuti, alla “farinella” bianca degli americani che entrò nelle case e nel vocabolario dei cittadini di Salerno. Nei giorni della ricostruzione si inaugurò un glossario pieno di neologismi introdotti dalla guerra: “sfollato”, “blitz”, “coprifuoco”, “jeep”, “camel”, “ricovero”, “ponte di barche”, “nylon”, “leasing”, “bombardamento a tappeto”, “sciuscià”, “spezzone incendiario”. Nel ricordo dei salernitani resterà indelebile anche quello delle prepotenze, delle requisizioni, delle occupazioni delle case, dei numerosissimi soprusi sulle donne e dei saccheggi, somministrati dai soldati inglesi e americani (ma anche canadesi, marocchini e indiani), assieme agli aiuti umanitari ed alla Coca-Cola. Ad ottobre, la pace fu l’unica vittoria.