Serata evento, domenica 6 agosto, nel quadriportico del Duomo di Salerno, promossa dall’Associazione Gestione Musica, nell’ambito di Salerno Classica sostenuta dal Fondo unico per lo Spettacolo in collaborazione con la Regione Campania, la Fondazione Comunità Salernitana, il teatro Goldoni di Livorno.
Alle ore 21, riflettori accesi sul pianoforte di Costantino Catena che incontrerà l’Orchestra del Teatro Goldoni di Livorno per un viaggio nel Novecento musicale tra le contaminazioni e le convergenze della musica francese e americana. Debussy e alcuni dei successivi compositori europei, come Ravel, Debussy Wagner & Holst influenzarono diversi pianisti e compositori americani.
E’ importante notare che i ritmi nel jazz e l’applicazione stilistica di questi e la strumentazione sono frutto, quasi esclusivamente, dell’invenzione del dialogo culturale afroamericano e di alcuni elementi armonici e melodici precedentemente esplorati e assimilati dai compositori europei. A loro volta, molte delle idee che hanno ispirato i compositori romantici come la pentatonica, la politonalità e i ritmi politi provenivano dalla loro stessa frequentazione delle tradizioni musicali del sud-est asiatico e dell’Africa, erano quelli gli anni dell’esotismo. Il programma di questa interessante serata, che sarà ripetuta il 13 agosto nel bosco di Palazzo Belvedere in Sicignano degli Alburni, offrirà l’immagine di un viaggio che principierà da Parigi e si chiuderà nella Grande Mela, sulle note di George Gershwin.
Si inizierà con il Maurice Ravel della “Pavane pour une infante défunte”, datata in versione orchestrale 1910, mentre giusto undici anni prima era stata concepita per pianoforte. Ravel non fece mai esplicito riferimento a chi si celasse dietro l’infante scomparsa, ma pare che le parole avessero un qualcosa di musicale. Certamente questa Pavane ha poco di spagnolo, dal momento che la Pavane, chiamata anche padovana, è una danza antichissima in voga nelle corti rinascimentali. Al carattere nobile, si aggiunge in questa Pavane, un clima elegiaco ed evocativo ad essa conferito da una tenerissima melodia esposta inizialmente dai corni su di un’armonia arcaizzante che dà la sensazione di assistere ad un’antica cerimonia funebre nella Spagna del passato. Sortita di Costantino Catena sul valzerino di Camille Saint Saens op.76 del 1884 per pianoforte e archi, composto per le nozze di Caroline Montigny-Rémaury, sua allieva. Nella stilizzazione di qualsiasi piccola cosa, Saint-Saens resta un maestro incontestabile e in questa pagina ci offre la dimostrazione di come si tratta il “frivolo” senza assolutamente scadervi. Ravel e Debussy percorrono gli stessi binari. Francesco D’ Arcangelo si cimenterà con le Prélude a l’après-midi d’un faune, in versione da camera arrangiata da Iaine Farrington, in cui il suono gioca, danza, iridescente, inafferrabile, ibrido, instabile, in un istante infinito, ma carico di tensione con un’orchestra di vetro e al contempo lussureggiante. Debussy compone la partitura nel 1894 ispirandosi all’omonimo poema di Stephane Mallarmé, L’après-midi d’un faune, e la apre e impianta su un sinuoso arabesco del flauto, cui è affidato il compito di impersonare il mitico protagonista, il fauno – non a caso è quello lo strumento che la mitologia gli assegna. Con un’efficacia descrittiva riconosciuta dallo stesso poeta che, ascoltando il Prélude eseguito al pianoforte da Debussy, ebbe a dire: “prolunga l’emozione dei miei versi e rende l’ambientazione con più passione ed efficacia di quanto non riuscirebbe a fare la pittura”. E se il compositore da quel poema non ha ricavato tutto il trittico originariamente progettato e che prevedeva anche un Interludio e una Parafrasi finale, è forse perché la densità narrativa di questo Prélude – nell’evocazione del crescere della passione, nell’approdo a un’acme emotiva e infine nello scemare della tensione – è inarrivabile. Si proseguirà con il celeberrimo Adagio di Samuel Barber, per archi op.1, datato 1935 con i suoi stordenti gradi congiunti ascendenti, un brano che aveva infatti, già conosciuto una certa fama sotto la direzione di illustri bacchette come quelle di Arturo Toscanini o Leonard Bernstein, realizzante un’immagine a partire da un motivo sinuoso, a spirale, ascendente per gradi congiunti, poi discendente e nuovamente ascendente, che viene sostenuto da una densa armonia affidata a lunghe note tenute. Esposta dai primi violini, la melodia passa poi a viole, violoncelli, nuovamente violini, quindi violini e viole insieme, che va a costruire un grande climax cui succede un più breve anticlimax, e l’apice del discorso viene segnato da una lunga pausa; d’altra parte la perfetta strumentazione che vede le voci strumentali dividere progressivamente le proprie file, in modo da raddoppiare lo spessore sonoro e toccare la massima estensione nel momento della massima tensione. Si giunge a Parigi sul glissando del clarinetto della Rhapsody in Blue di George Gershwin. Il clarinetto riveste un ruolo squisitamente protagonistico, che ne mette in risalto le notevoli possibilità timbriche e dinamiche, la morbidezza e la plasticità nelle frasi legate, l’agilità e la spontaneità negli incalzanti fraseggi e nei conseguenti passaggi virtuosistici. E’ questa una pagina, in versione per orchestra da camera arrangiata da Iain Farrington, che utilizza un numero di musicisti simile alla versione originale per band, ripristinando la scala ridotta della band di Whiteman, ma con l’intera gamma di colori orchestrali familiari dalla versione orchestrale e dalle opere di Gershwin. Diviene, così, una perfetta sintesi delle intenzioni, dei concetti e dei sentimenti che stanno all’ origine della composizione è stata suggerita dallo stesso autore: «Non trovai nuovi temi ma elaborai il materiale tematico già esistente nella mia mente e tentai di concepire una composizione integrale. L’ho costruita come una specie di caleidoscopio musicale dell’ America, col nostro miscuglio di razze, il nostro incomparabile brio, i nostri blues, la nostra pazzia metropolitana”.