Proverbi napoletani ed archeologia: il dottor Stefano De Caro al Rotary Club Salerno Duomo

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“Quanno chiovon’ passe e ficusecche”  è un’espressione napoletana che   si usa quando si vuol spiegare che un evento non potrà mai verificarsi se non in  caso di una fortuita e  ipotetica pioggia di uva passa e fichi secchi, evento ritenuto chiaramente impossibile da verificarsi. A spiegare il legame tar antichi proverbi napoletani e l’archeologia è stato il dottor Stefano De Caro, archeologo, già  Direttore Generale delle Antichità nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali e  per alcuni direttore degli scavi di Pompei.  professore di discipline archeologiche in diverse università italiane, durante la conviviale rotariana a lui dedicata organizzata dal Club Rotary Salerno Duomo, presieduto dal dottor Giuseppe Cimmino. Il dottor De Caro  ha spiegato che l’uso di consumare la frutta secca per celebrare il Natale ed il Capodanno,  come ad esempio i datteri e i fichi secchi,    risale agli antichi romani:” Durante le calende di gennaio offrivano  datteri e fichi secchi insieme ad una moneta ai loro ospiti. Lo sappiamo perché a Pompei ed Ercolano ci sono dei dipinti di nature morte come quello della Casa dei Cervi di  Ercolano, conservato nel Museo Archeologico di Napoli,  nel quale è raffigurata una natura morta con fichi secchi, datteri, con monete e una coppa di vino. Il dattero, proveniente dal Nord Africa,  è il  frutto della palma Phoenix dactylifera  ed è fin dall’antichità più remota una delle più importanti risorse alimentari del Medio Oriente. Anche i fichi erano importanti per i romani: nella Roma arcaica, il ficus ruminalis era l’albero sacro sotto cui, secondo la leggenda, Romolo e Remo furono allattati dalla lupa. I fichi secchi hanno una connessione anche con la tradizione napoletana come ha spiegato De Caro  ricordando una delle storie raccontate ne ” Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenimento de’ peccerille” di Giambattista Basile, il  poeta popolare napoletano  del ‘600 –  quella di Vardiello che   trova in un palazzo abbandonato una pentola di scudi  d’oro , che lui crede essere lupini, che porta subito alla mamma che, sapendo che il figlio era un bonaccione, per evitare che raccontasse ad altri del prezioso ritrovamento, dalla finestra gli fa grandinare addosso, per oltre mezz’ora, uva passa e  fichi secchi. Egli li raccoglieva gridando:” Mamma, o mamma, porta tinozze, porgi canestri, che se dura questa pioggia, ci faremo ricchi! E quando se ne fu ben riempito il ventre, salì in camera e si buttò a dormire. Avvenne che un giorno due cittadini di malaffare iniziassero a litigare per uno scudo d’oro che avevano trovato a terra. Capitò in quel punto Vardiello che disse:” Quante chiacchiere per un lupino rosso di questa sorta! Io non ne faccio neppure stima, perché ne ho trovato per mio conto una pentola piena! La Corte, informata del fatto, lo mandò a chiamare e lo sottopose a processo per sapere come, quando e con chi avesse trovato gli scudi di cui aveva parlato. Vardiello rispose: “ Li ho trovati in un palazzo, nel corpo di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva passa e di fichi secchi. Il giudice che sentì questo parlare a vanvera, chiuse la causa e decretò che fosse mandato all’ospedale. Così, l’ignoranza del figlio fece ricca la madre che grazie al suo buon giudizio riparò all’ asinità del figlio. (pubblicato su “Il Quotidiano del Sud”).

Aniello Palumbo