Lunedì 2 giugno, alle ore 20, seconda serata della I edizione del Festival di Musica da Camera Sant’Apollonia. Un evento, questo, nato dalla sinergia del conservatorio di Musica “G.Martucci” di Salerno, con un progetto del Dipartimento di Musica d’Insieme, presieduto da Francesca Taviani, da un’idea di Anna Bellagamba e la Bottega San Lazzaro del professore Giuseppe Natella che ospita la rassegna nella cornice della Chiesa di Santa Apollonia.
La serata sarà dedicata alla “Poesia per musica”: i versi di Heine, Ruckert, Goethe, Verlaine, Puskin, si ritroveranno nelle melodie di Schumann, Schubert, Faurè, Debussy, Rachmaninov, con una incursione nella romanza da salotto di Tosti e le miniature di Donizetti, Rossini e Verdi, pagine affidate al baritono Antonio Cappetta, ai soprani Evelina Bruno, Stefania Murino, Maria Infranzi, Valentina Ginestous, Francesca Manzo, Italia Fiorentino e Naomi Rivieccio, ai tenori Raffaele Scocozza, Achille Del Giudice, Giovanni Germano e Daniele Lettieri, unitamente al mezzosoprano Sabrina Lamberti, accompagnati al pianoforte da Azzurra Romano e Giacomo Bellucci.
Il baritono Antonio Cappetta inaugurerà il programma eseguendo i primi quattro lieder dai Dichterliebe di Robert Schumann. Per tutto il terzo decennio dell’Ottocento Schumann si dedicò alla composizione di musica per il pianoforte, soprattutto cicli di brevi pezzi in tonalità vicine o con un implicito programma comune.
Non deve quindi destare sorpresa il fatto che, quando nel 1840 decise di mettersi a comporre dei Lieder, il musicista seguisse un metodo simile. La grande maggioranza della sua musica vocale venne pubblicata in forma di raccolte di Lieder collegati da una struttura musicale di tonalità vicine su testi di un unico poeta, non soltanto in cicli liederistici famosi come Dichterliebe e Frauen- liebe-und -leben ma anche in raccolte meno celebri, tra cui i Reinick Lieder, che compongono l’op. 36. Schumann conosceva già molto bene il popolarissimo Buch der Lieder (1827) di Heinrich Heine, quando nel maggio del 1840 rivolse la sua attenzione alla parte di quella raccolta intitolata “Intermezzo lirico”: si tratta di un gruppo di 66 poesie collegate tra loro in maniera piuttosto tenue, che dipingono una gamma vastissima di reazioni emotive all’amore non corrisposto.
Schumann compose i Lieder a noi noti come Dichterliebe nella seconda metà di maggio: sulla pagina con il titolo provvisorio si legge semplicemente “20 Lieder dall’ “Intermezzo lirico” del Buch der Lieder di Heine”, perché il musicista diede alla raccolta il suo titolo programmatico soltanto più tardi. Sebbene il filo della narrazione vi sia meno chiaro che in Die schöne Müllerin o nel Winterreise di Schubert, il Dichterliebe di Schumann traccia una storia simile di amore infelice; ma la cupa conclusione dei cicli di Müller-Schubert lascia il passo a un finale meno pessimistico nella raccolta di Heine-Schumann.
II primo Lied, “Im wunderschonen Monat Mai” parlando del “bel mese di maggio” al passato, chiarisce che le liriche che seguono, scritte nel presente, sono una specie di flashback; l’ambiguità del centro tonale in questo Lied di apertura fa da “dissolvenza” alla sequenza narrativa che viene dopo. II secondo, terzo e quarto Lied, “Aus meinen Tranen spriessen”, “Die Rose, die Lillie” “Wenn ich in deine Augen seh” in tonalità maggiori molto vicine, rappresentano delle dichiarazioni d’amore rivolte all’amata; soltanto nel quarto le “lacrime amare” annunciano per la prima volta il dramma che verrà.
Interverrà, poi, il soprano Anna Maria Novi per interpretare “Widmung”, primo brano della raccolta Myrthen di Robert Schumann. La raccolta era stata composta nel 1840, anno del sospirato matrimonio tra Robert e Clara Wieck, e Widmung costituisce quindi, senza dubbio, una delle più belle dediche nuziali di tutti i tempi. Da notare che nelle ultime battute del brano Schumann faccia risuonare l’incipit dell’Ave Maria di Schubert, ancora oggi una sorta di simbolo nuziale per eccellenza.
Seguirà l’eccelso binomio Goethe-Schubert, che esordisce nel 1814 con “Gretchen am Spinnrade”, in cui è mirabilmente esemplato l’incalzare meccanicamente ossessivo dell’accompagnamento del pianoforte, un procedimento tipico dello Schubert liederistico, ad illustrazione di un dato psicologico suggerito dal testo, in quella integrazione particolare tra parola e musica, melodia vocale, affidata al soprano Evelina Bruno e parte strumentale, che non ha precedenti nella storia del lied.
Balzo in terra partenopea con “Canzone marenara” composta da Gaetano Donizetti nel 1835 dedicata al celebre basso Luigi Lablanche, ma in Santa Apollonia la evocherà il soprano Stefania Murino, insieme al sorriso infinito del nostro splendido mare. Restiamo a Napoli con la virtuosistica Danza, affidata al tenore Raffele Scocozza, una infuocata tarantella che schizza un moonlight tutto mediterraneo, firmata da Gioacchino Rossini, che ci riporta agli occhi le immagini di questi danzatori copiose nell’iconografia del Settecento e dell’Ottocento, grazie alla moda dei “viaggi pittorici”, che fecero conoscere all’estero i paesaggi e i costumi italiani.
E siamo al Giuseppe Verdi giovanile del 1838. La sua prima opera sono sei romanze per canto e pianoforte di sapore belliniano, non prive di qualche curiosità. Il tenore Achille Del Giudice, proporrà “In solitaria stanza” su teso del poeta Jacopo Vittorelli, in cui si trova un inciso melodico che anticipa una frase di Leonora ne’ “Il Trovatore”.
La Parigi di fine Ottocento e inizio Novecento era il cuore delle grandi rivoluzioni estetiche: ricerche che guardavano senza paura verso il futuro. I simbolisti cercavano una strada che sostituisse il suggerire al dire. Gli impressionisti provavano a prediligere il colore alla forma. I cubisti riflettevano sulla risorsa del molteplice, intesa come lente di ingrandimento da applicare all’interiorità delle cose. C’era, però, anche una corrente espressiva che provava a dire qualcosa di nuovo, rievocando oggetti e immagini del passato, come le vecchie maschere della Commedia dell’Arte. Gli artisti cercavano con tutte le loro forze una via di fuga dalla realtà; c’era chi preferiva rifugiarsi negli oscuri significati delle culture esotiche, o chi sceglieva di andare a scavare nelle proprie tradizioni, sperimentando nuovi significati per le parole di sempre. Verlaine fu uno dei primi. Le sue Fêtes galantes nel 1868 proponevano un’evasione nella fantasticheria preziosa, l’abolizione del tempo e la trasformazione del testo poetico in partitura musicale. Quella raccolta di poesie era destinata a lasciare un segno profondo nell’immaginazione dei musicisti. I soprano Maria Infranzi e Valentina Ginestous offriranno le due interpretazioni di Gabriel Faurè e di Claude Debussy del celeberrimo “Claire de Lune”, con un’impronta di tenerezza e lieve malinconia parnassiana.
Atmosfere da romanzo russo per il soprano Francesca Manzo che si cimenterà con “Ne poj, Krasavitza primne” di Sergej Rachmaninov su testo di Puskin, caratterizzati da una dimensione sostanzialmente lirica e da un canto spianato che si apre in larghi squarci melodici evocante quell’aura di languida eleganza. Finale di serata con un piccolo portrait di Francesco Paolo Tosti, a cura dei soprano Italia Fiorentino con “Mio povero amor!”, e Naomi Rivieccio che intonerà “Ridonami la calma”, dei tenori Giovanni Germano per “L’ultima canzone” e Daniele Lettieri con “Vorrei morire” e in chiusura “Malìa” cantata dal mezzosoprano Sabrina Lamberti, composizioni di voluta semplicità, adatte ai “salotti”, che non arrivano mai ad assumere quei toni di melodrammaticità che nell’Ottocento imperavano, poiché, come si sa, quello era il secolo intriso di veemenze operistiche. Tosti seppe evitare quegli accenti, perché ebbe la fortuna di essere in possesso di un effettivo talento melodico, e ciò lo pose, nella sua epoca, al di sopra di tanti altri compositori che si esprimevano con la forma – molta di moda – della “romanza da camera”. Tosti musicò testi di poeti oggi completamente dimenticati quali Rocco Pagliara, Lorenzo Stecchetti, Panzacchi, Ricci, ma anche di grandi come Gabriele D’Annunzio. Ascoltare questa musica è come abbandonarsi in un vecchio mondo romantico, oggi sconosciuto ai più.
È un genere nel quale è facile inebriarsi e che riesce, tuttavia, a donare una velatura di rara eleganza, una leggerezza decorativa alle semplici spirali della sua melodia.