Letteratura Critica: Vincenzo Monti (Parte seconda)

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cop lineam lett criticaLeopardi pessimisticamente inneggia alla morte, rimpiange i doni della gioventù, che passano veloci sulle speranze degli uomini e compiange tutta l’umanità sottoposta ineluttabilmente alle sue sconfitte, ma lo fa con una voce di poesia, così sublime e soave, da darti piacere immenso al cuore e agli orecchi e finisce per farsi definire romantico per sentimento.
Ed invero la tenace bellezza della sua poesia, benché mesta, benché carente di salvifiche speranze, trapassa come lama il pensiero razionale e perverso, diviene ineffabile accettazione dell’esistenza.
Il Manzoni supera, con fermo proposito, ogni limite transitorio, umano, contingente e spazia nell’Universo infinito della Fede, e con la sua forza ed il suo ascendente ridona la speranza perduta, ricompone la lucida certezza di una sofferenza inevitabile, ma ferace di bene.
E ci fermiamo, altrimenti andremmo troppo fuori strada, per la smania di ritrovare nella memoria personalità ben definite di grandi autori.
Se ci rivolgiamo di nuovo al Monti, alla sua inesistente passione per le cose, ma al suo vivissimo desiderio di gloria e di approvazione, notiamo che egli non tentò di contrastare i suoi tempi mutevoli, ma anzi vi si adeguò mollemente, seguendoli e cantandoli con eguale misura in una struttura esteriore e fantastica che non toccava il suo intimo interesse, se non per apparire ufficialmente in tutte le occasioni.
La sua anima, infatti, è sempre e solo nella parola appropriata, nella trasposizione di scenari colossali e suggestivi, mai nell’alveo profondo della ispirazione. I suoi contemporanei furono abbagliati dalla sua macchinosa capacità espositiva, ma la critica ufficiale lo definì un prezioso stilista. Molti misero in dubbio la essenzialità della sua vena poetica, pur stimando in lui lo studioso e lo scrittore egregio.
Il Leopardi non vedeva in lui forza d’ispirazione genuina, ma predilezione per una forma compiacente, e così il Foscolo, così il Carducci, così il Momigliano; ma Benedetto Croce lo collocò sul piedistallo della poesia con la storica espressione: “Pur fu poeta!”.
Non fu certo un uomo dal forte carattere, né uno scrittore poderoso, capace di scolpire i suoi disegni, ma è facile una riflessione: non tutti abbiamo un carattere forte, in grado di fronteggiare ogni fortunoso evento della vita. Don Abbondio non aveva un cuor di leone… eppure tutti lo abbiamo amato proprio per la sua debolezza ed abbiamo sorriso sulle sue malefatte, forse perché il Manzoni, senza darcelo a intendere, lo ha costruito in modo che non lo tocchi il nostro disprezzo. Non fu così fortunato il Monti quando la ruota della sua fortuna girò a vuoto, dopo anni di incalcolabili successi e di fama immensa.
Dire di lui che fu un opportunista, un voltabandiera, un italo Amleto ed altri ingiuriosi epiteti significa colpire l’uomo nelle sue debolezze, significa tacciare di viltà un individuo che non si è mai vantato né curato di apparire forte e coraggioso. E se è stato al servizio ora di un padrone ora di un altro, ciò è scaturito dalla sua ingenua sete di gloria appariscente e vana, come poi si è dimostrata.
Non ha mai posto l’occhio al lucro, all’arrivismo, al potere materiale. Suo unico potere era la penna, con la quale sapeva incantare per grazia ed eleganza di eloquio, mai propenso al male, mai meno che onesto, mai responsabile di illecito.
(Continua…)