Il personaggio che Viola Di Caprio mette su pagina e poi in scena non vuole abdicare, non ha ancora abdicato, deve avere fiducia nel sistema che dice di volerla aiutare, e lei tende la mano, il braccio, ma oltre alla punta di un ago, vorrebbe stringere le dita a chi, armato di un camice bianco, le dice che si prenderà cura di lei. La malattia è un’illusione e la guarigione una vanità; ma la cura, il farmaco, resta l’uomo e il suo rapporto con l’altro.
Sono tre gli interrogativi intorno ai quali è stato costruito lo spettacolo e che Roberto Lombardi riporta nelle note di regia quasi a voler restituire al pubblico una traccia dalla quale partire: “Come si può pesare l’amore, il desiderio, il bisogno su una bilancia che distingue nettamente il bene dal male, il giusto dallo sbagliato? Come si può trovare collocazione in una realtà fatta di commi, di farmaci, dosi, trattamenti? Se il nostro tempo è segnato non dalle nostre emozioni e neppure da un orologio ma da farmaci che ci rallentano, ci velocizzano, se anche il nostro spazio non è dilatato dalla natura che ci circonda o dai ritmi frenetici del vivere quotidiano ma ristretto fino a occupare i centimetri quadrati di un letto di contenzione, di quale libertà – o parvenza di libertà – priva il malato il disturbo che si accanisce a etichettarlo?”
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