Dai versi di Dante che riporteremo dal XXVI canto dell’Inferno, si evince un fascino che penetra il pensiero e pervade i meandri dell’anima… quello stesso che portò i fratelli Vivaldi alla dimostrazione della loro audace curiosità di conoscenza e di esplorazione; è il sentimento del supremo, umanamente concepibile, che fu il destino di Colombo e, perché no?, è, oggi, l’anelito della Scienza a scoprire la vita su altri pianeti.
“Ofrati” dissi, “che per cento milia / perigli siete giunti all’occidente la questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi ch’è del rimanente, / non vogliate negar l’esperienza: / di retro al sol, del mondo sanza gente.
“Li miei compagni fec’io sí aguti, / con questa orazion picciola, al cammino, / che a pena poscia li avrei ritenuti; / e volta nostra poppa nel
mattino, / dei remi facemmo ali al folle volo, / sempre acquistando dal lato mancino”.
Dal breve discorso di Ulisse, di cui i soprastanti versi sono soio una parte, scaturiscono elementi di così accesa curiosità tra i dotti da dar vita ad infinite diatribe, soprattutto per quel “folle”, che indica, sì, l’arditezza del pensiero umano, ma è anche la quasi certezza della mancata osservanza dei divieti divini.
Infatti, è impossibile che non sorga il dubbio se Ulisse sapesse che, passando per le colonne d’Ercole, avrebbe infranto i limiti dell’umano, addossandosi una grave e fatale responsabilità.
I dantisti si dividono e si suddividono in pareri opposti: il Donadoni, il De Sanctis, il Porena, il Croce, il Fubini, il Parodi e molti altri non considerano essenziale questa mancata osservanza di Ulisse alle leggi divine; essenziale è il fine della conoscenza, ch’è un fuoco che divora costantemente l’animo umano e lo fa nobile ed eterno.
E mai si dirà abbastanza del folle volo di Ulisse, specie se lo si confronta coi voli interplanetari dei nostri giorni, dove la scienza e il divino sconfinano ciascuno per proprio conto.
(Continua…)
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