Ci soffermiamo, solo per qualche momento e per nostro personale piacere, sulla tesi del Padoan, condivisa da molti altri, che si riporta alle fonti principali che hanno illuminato la posizione dantesca: Virgilio, Ovidio e Stazio. “Il primo (Virgilio) condanna Ulisse che rappresenta in massimo grado l’astuta scelleratezza dei Greci, tuttavia, non di rado, lo pone su un piano superiore a quello dei comuni mortali, in quanto autore di azioni mirabili ed eroiche. Gli altri due insistono soprattutto sulla sua mirabile eloquenza, per mezzo della quale l’eroe, anche servendosi di argomenti in sé giusti, convince gli altri alla ingiustizia. Ulisse è, quindi, nella tradizione classica, “fandi fictor”. In quella medioevale viene assunto a simbolo, più moralmente degno, di una intensa inquietudine e viene chiamato “sapiens”, termine che non implica, però, un giudizio etico totalmente positivo, in quanto la sapientia mundi può essere stoltezza e strumento del male (da “Lettura dell’Inferno” di G. Marchese e S. Rossi).
Per il divino poeta, infatti, il desiderio smodato di Ulisse di conoscere tutto non può che produrre rovina. Tuttavia, molti sono gli studiosi, tra cui lo stesso Padoan, che ritengono l’esperienza di Ulisse una parte della stessa umanità di Dante, “una stazione della propria vita, una sua amara esperienza autobiografica”. E ci piace chiudere con le parole degli studiosi Marchese-Rossi: “… altro dovrà ancora scriversi. Malgrado tutto, il volo di Ulisse ha in sé qualcosa che non può essere spiegato e che tutti si affanneranno ad intendere. Nella qual cosa è uno dei segni che esso appartiene alla Poesia”.
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