Lineamenti di Letteratura critica. Monti (Parte terza)

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cop lineam lett criticaConvinto di essere il cantore ufficiale della nazione, ne cantò tutti gli avvenimenti, poco o nulla intuendone contrasti di interessi politici contraddittori.
Per amore del Neoclassicismo compose opere esteriormente pregiate, come °La bellezza dell’universo” e la “Prosopopea di Pericle”; per amore del progresso scrisse l’ode “Al Signor di Mongolfier”; per l’enorme impressione della Rivoluzione francese, scrisse “La Bassvilliana” o “In morte di Ugo Bassville”.
E per amore di giustizia descrisse lo spirito di questo rivoluzionario come efferato e lo costrinse ad assistere alla morte di Luigi XVT, il cui sangue, raccolto da cherubini in quattro coppe preziose, fu poi dal cielo versato sulla terra, perché questa si accendesse di furore contro la Francia.
Avendo, per altro verso, fatto caso al successo riscosso da Alfieri con le sue tragedie, volle cimentarsi in questo campo, scrivendo “L’Aristodemo”, “Il Galeotto Manfredi” e il “Caio Gracco”, che ebbero immediato successo, quasi ingiustamente superiore a quello alfieriano, avendo egli adoperato un linguaggio meno duro e più duttile.
E sempre per seguire contraddittori momenti storici, quasi per stendere un velo di oblìo sulla Bassvilliana, scrisse “Il fanatismo”, “La superstizione”, “Il pericolo”.
Facendosi, poi, sempre più vicina e sentita la figura di Napoleone sulla ribalta storica, dopo la Cantica “In morte di Lorenzo Mascheroni”, dove lo scienziato si intrattiene negli spazi celesti col Panni, col Beccaria e col Verri, brillando in lontananza già l’astro di Napoleone, scrisse per questo “Il bardo della Selva Nera”, in sette canti osannanti, e “La spada di Federico II”, un poema in ottave.
Ma, oscurandosi l’astro di Napoleone, nella battaglia delle nazioni del 1814, il Monti cantò il ritorno degli Austriaci con “Il mistico omaggio”, “Il ritorno di Astrea”, “Invito a Pallade”.
Un comportamento, in apparenza così discutibile, trova comprensione, se non giustificazione, nel desiderio tutto umano, tutto limitato, tutto circoscritto nella velleitaria disposizione naturale a volersi credere, ad ogni costo, il poeta che ha il dovere di cantare tutti gli avvenimenti del proprio paese.
Certo se ci fermassimo ad esaminare il Monti per tutti i suoi scritti composti, in grandissimo numero, per occasioni del momento, ma senza futuro, non potremmo rimpiangere né riscattare la sua personalità artistica pur senza colpe, patetica nell’accettazione di compiti che, magari, assolveva solo per un bisogno esteriore.
“Allora” – mi chiedeva un alunno – “Non vi fu mai veramente anima negli scritti del Monti?”. No, se lo consideriamo dal punto di vista della creazione poetica, perché egli prese da tutti i più grandi autori le immagini che gli riuscivano più consentanee, perché, in sostanza, egli non fu un creatore, ma un traduttore e un cesellatore.
Bene lo diremo con le parole del Chiodaroli: “Il Monti è poeta in quanto è traduttore, perché il testo offre a lui l’unica cosa che egli non possiede, la passione da trasfigurare in bellezza. Il concetto di scenografia non vale a spiegarci la poesia del Monti, perché non è che il sostituto vano ed esteriore di ciò che il Monti non aveva; ma di fronte a un testo egli poteva entusiasmarsi e dar forma a tutte le fantasie visive che gli si affollavano in mente”.
Vale a dire che il suo cuore, la sua anima, la sua mente vibravano all’unisono quando l’emozione li accendeva. Allora bisogna ammettere che di questa forma è l’anima del Monti; è assente in lui “una passione da trasfigurare in bellezza”, ma non è assente la commozione capace di sommuovere la sua fluida immaginazione.
Per questo, la traduzione dell’Iliade, elaborata da lui, è cosa di inestimabile pregio. Infatti, egli non riporta la traduzione assecondando le sue esperienze umane, ma solo facendo rivivere quelle letterarie, dove risuonano echi e voci di tanti autori a lui cari.
Nella prestigiosa traduzione dell’Iliade egli non cerca di dominare il mondo omerico, piuttosto si trasferisce in esso e ripiasma personaggi e situazioni dei poema con assoluta capacità e consapevolezza di un vagheggiamento innocente e adamantino.
Perché tale egli fu, nonostante le sue umane debolezze e la sua vanità di letterato, soggiogato da una potentissima facoltà immaginativa. Secondo il Bezzola la sua parola fu un’arma potentissima con la quale il Monti finì coi trafiggere se stesso.
Vincenzo Monti resta comunque un grande poeta, che eccelle in senso assoluto nella rielaborazione del mondo omerico che egli intese come fosse suo, parte dell’animo suo.
E pensare che ne conobbe la sostanza non derivandola direttamente dal greco, ma dai traduttori latini, perché il mondo latino egli conobbe in tutto e per tutto.
Ed è ancora più meraviglioso, non conoscendo egli la lingua greca, dovere ammettere che la traduzione dell’ Iliade è un’opera di grande bellezza e perfezione, che ci riporta alla mente il concetto sull’arte del Winckelmann, che il Monti ebbe carissimo:
“La nobile semplicità e la quieta grandezza delle statue greche costituivano il vero sogno caratteristico degli scritti greci dei tempi migliori La grazia è il piacevole secondo ragione … Agisce nella semplicità e nella quiete dell’anima… Per merito di essa tutto quello che l’uomo fa diviene piacevole”.
Questa la generale fisionomia del Monti.
Tuttavia, non possiamo dimenticare un altro aspetto di lui, intristito dalle avverse circostanze, corroso nel corpo da mali irriducibili, mentre gli anni gli piovono addosso come un castigo.
È il Monti dei versi familiari, pieni di dolcezza e di malinconia, dove l’affetto per la moglie e la figlia esplode nella semplicità di un sentimento grande e vero;
Così grande e vera è anche la sensibilità che ripercorre i sonetti a Giuda, che ci fanno proprio vedere come egli sapesse tirar fuori l’anima, quando non lo soggiogava l’abbaglio della esteriorità.