Il Ravello Festival è legato al nome di Richard Wagner. Ma quando il maestro arrivò a Ravello? Con chi era? Dove alloggio? Chi incontrò?
Procida riporta, notizie, aneddoti e curiosità, a tratti divertenti, del periodo passato dal maestro di Lipsia in Campania, ricordando infine, il giudizio non proprio lusinghiero dello stesso Wagner sul Mezzogiorno, quando – ammalatosi – scappò a Siena. “Meno Africa e più Italia, disse. E partì. Non vide mai più Ravello”.
Ci fa piacere, inoltre, comunicarvi che per la 64esima edizione del Festival è stato stampato (da Arti Grafiche Boccia) un volume, in italiano e in inglese, che non solo raccoglie in maniera sistematica, secondo lo stile dei primi anni, le note di sala di tutti gli eventi in calendario (curati da Giovanni Gavazzeni, Elisa Guzzo Vaccarino e Vincenzo Martorella) ma si arricchisce anche di alcuni scritti che vogliono essere un tributo a Ravello e al programma di quest’anno.
Il libro si apre con uno straordinario pezzo di letteratura di Diego De Silva, dal titolo “Una traduzione dal bambino“. Lo scrittore salernitano ricorda: “La prima volta che sono stato a Ravello per vedere un concerto, non l’ho visto… non mi fecero entrare…”.
Segnaliamo anche l’omaggio dello storico della Tv, Giorgio Simonelli, a Mariangela Melato, alla quale la Fondazione Ravello dedica una serata in programma il 15 settembre: “Sola me ne vo”, spettacolo nel quale frammenti visivi dei lavori cinematografici, teatrali e televisivi della grande attrice si alterneranno a brani di jazz. Quel jazz antico – per dirla con Renzo Arbore – che lei tanto amava, affidati all’interpretazione di Maria Pia De Vito.
Dal 1 luglio si aprirà quindi, il sipario sulla nuova edizione del Ravello Festival. Tanti i grandi nomi della compagine concertistica internazionale che calcheranno il palco sospeso del Belvedere di Villa Rufolo. Grandi nomi ma anche orchestre giovanili, come quella italiana, che aprirà l’edizione 2016 (1 luglio ore 20) con un programma dedicato a Wagner, Strauss, Prokof’ev e Ravel. L’Orchestra Giovanile Italiana, ideata da Piero Farulli all’interno della Scuola di Musica di Fiesole e tenuta a battesimo da Riccardo Muti, sarà diretta per l’occasione da Juraj Valčuha, dal 2009 direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai.
Il weekend festivaliero proseguirà sabato e domenica 2 luglio (ore 20) e 3 luglio (ore 21), sempre a Villa Rufolo, con due concerti che vedranno sul palco della Città della Musica una delle migliori orchestre del mondo, l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo, diretta da Yurij Temirkanov. Il concerto di sabato sarà dedicato interamente a Tchaikovsky e impreziosito dal violino di Leticia Moreno mentre quello di domenica proseguirà il viaggio nella musica russa con pagine di Khachaturian, Rachmaninoff e Rimski-Korsakov con la presenza di un altro solista di grande talento, Roustem Saitkoulov. I biglietti sono in vendita su www.ravellofestival.com – info 089858422 boxoffice@ravellofestival.com
Ecco l’ articolo scritto da Antonio Procida nel lontano 1953, conservato negli archivi della Fondazione.
WAGNER A RAVELLO
Riccardo Wagner giunse a Ravello in un risplendente mattino del maggio 1880. Vi giunse con la sua piccola corte principesca che accompagnava ovunque il Maestro e alla quale, assieme a Donna Cosima e ai figliuoli, erano aggregati il fido Humperdinck e un giovane pittore russo, Paolo loukowsky, che. doveva essere lo scenografo del Parsifal.
Era primavera ed una delle più incantevoli. Il clima era mite, lievi brezze sfioravano l’ epidermide, i fiori sbocciavano con fragranza che stordiva e il cielo, di un inverosimile abbaglio, era come il riflesso dell’infinito mare di lacca che completava quella sinfonia d’azzurro. Da Amalfi, dopo aver pernottato nell’antico chiostro dei Cappuccini trasformato in albergo, Wagner volle raggiungere Ravello dove, più che l’incanto panoramico, lo richiamavano i superbi resti di architetture arabo-normanne indicati come fonte di ispirazione per il suggestivo scenario del castello e del giardino incantato del mago Klingsor.
Wagner aveva allora 67 anni e se era fisicamente stanco, soprattutto dopo le battaglie dell’ultimo decennio in cui aveva dato vita alla “Tetralogia“, il suo spirito si macerava per attingere un ideale sempre più alto. Parsifal, intorno al quale lavorava, dominava il suo animo. Questo poema cristiano che gli mulinava nel cervello da oltre un quarto di secolo, doveva avere una significazione
cosmica. L’idea – germoglio, sbocciata nel ’54, aveva raggiunto la sua realizzazione d’arte: visione di lotta fra il paganesimo e il cristianesimo, interpretazione simbolica degli eventi primigenii in eterno contrasto, alla luce dell’evangelico.”beati i semplici di spirito e i puri di corpo“.
E l’animo tutto preso da questo mondo favoloso, in cui sentimento mistico e razionalismo filosofico si fondono nella luce dell’arte in quel nuovo linguaggio che è il dramma wagneriano, il Maestro era venuto in Italia per completare lo strumentale e pensare alla realizzazione scenica di questo suo “testamento spirituale”. Testamento, in quanto è predicato un nuovo motivo: quello della “sofferenza della sofferenza altrui” come mezzo supremo della redenzione. Wagner, ancorato alla
pietà e presago della sua fine prossima, in invocava la liberazione: aveva quindi bisogno di quiete, di sole benefico, di armoniosa serenità. Dove trovare tutto ciò se non in quello azzurro splendore mediterraneo, al quale egli chiedeva il segreto dell’abbacinante tavolozza che gli occorreva per dar vita allo strumentale del secondo atto, quello dei lascivi allettamenti di Kundry al “puro folle?”
Wagner era già stato a Napoli appena dopo il compito ciclopico della realizzazione del suo teatro a Bayreuth. Vi giunse il 1 ottobre del ’76 e fu subito incantato da quella suprema volontà di vivere che promana dall’aria stessa della città. Vi sostò qualche giorno, visitò Pompei e Capri, e si fermò a Sorrento, di cui aveva sentito decantare la sognante tenerezza da Re Luigi di Baviera, che vi era stato nel ’58, assieme allo zio.
A Sorrento rimane legata la grande amarezza del decisivo contrasto con Nietzsche. Fu una comune amica, Malvid von Neysenburg, a chiamare Nietzsche all’albergo, dove aveva preso dimora Wagner. Il filosofo, strenuo banditore del verbo wagneriano, attraversava allora una delle tremende crisi che furono il preludio alla sua tragica pazzia. Lavorava intorno a quel suo libro “Umano, troppo umano” che doveva contenere le prime maligne allusioni all’autore del Tristano, e che divennero più tardi clamorosa rivolta e atroce denigrazione nel famoso opuscolo “Contro Wagner“.
Il Maestro aveva terminato la stesura poetica del Parsifal e volle leggerla all’amico. Nietzsche ascoltò la lettura senza proferire una sola parola. Il “senso religioso” di Wagner lo irritava perché riteneva insincera quella conversione che era, invece, il fatale corollario filosofico della tesi che anima l’Olandese volante e il Tannhauser. Quella commedia con se stesso – disse poi Nietzsche – mi
stomaca“. Incomprensione improvvisa di un’arte fino ad ieri esaltata? Rivolta di un animo esacerbato contro il mondo perché scontento di se stesso?
Mistero. Mistero che non fu mai compiutamente chiarito neanche allume delle più basse e assurde insinuazioni tentate più tardi dai biografi. Certo, l’incontro di Sorrento fu l’ultimo fra quei genii che erano stati fervidi amici e che divennero avversari implacabili.
Wagner rimase sconvolto. Scrivendo a persone care ebbe a confessare: “Sorrento sarebbe un paradiso se non mi turbasse la vicinanza di Nietzsche“.
Durante quel soggiorno, il Maestro fu visitato dal pittore Lembach, che dipinse il celebrato ritratto wagneriano; ed ebbe frequenti contatti con Paolo Heyse, che lavorava intorno agli “Idillien“, con Eduardo Grieg e con Gregorovius, il grande storico innamorato dell’Italia, col quale faceva serene passeggiate lungo la pittoresca strada costiera, assieme a Bartolomeo Capasso, l’insigne studioso della Napoli greco – romana, e al sindaco di Sorrento, Carriello.
Ma quando Wagner ritornò a Napoli nell’80, i tempi erano mutati. Il Maestro non era più un formidabile lottatore, ma un trionfatore che la sua fedele compagna – sapiente realizzatrice di quella costruzione geniale che fu la “tradizione di Bayreuth” – cullava in una esistenza color di rosa portando il rivoluzionario di Dresda verso la nobiltà del blasone e circondandolo di una devota cerchia di amici e di fedeli discepoli. La sovranità nell’arte doveva diventare, per il Maestro, regalità in ogni atto di vita: tale la divisa di Cosima Liszt, da dieci anni Frau Wagner: Perciò ella volle una villa di sogno, una villa principesca per quel soggiorno napoletano. E l’amico Gersdorff, incaricato della scelta, fece le cose in grande stile prendendo in fitto quella villa d’Angri che, incuneata all’inizio di Posillipo, discende principescamente dall’alto della verdeggiante collina alla riva del mare, per terrazze e scalee fiancheggiate da slanciate palme e da lussureggianti fiori, dal luccichio di verdi lauri e dal profumo resinoso di colossali pini. (Oggi la villa, sempre maestosa e suggestiva, è trasformata in aristocratico collegio femminile gestito da ottime Suore).
Wagner si mosse, dunque, con tutta la sua piccola corte, un seguito di undici persone, comprese le due governanti delle figliuole, ma eccettuata la numerosa servitù. Le spese del soggiorno erano sostenute dal Re di Baviera che volle mettere a disposizione del grande suo amico la personale sua vettura – salone per il viaggio in Italia. Tutto l’assieme del soggiorno doveva, quindi, essere intonato al fasto d’una regale esistenza.
Napoli esaltò il Maestro rapendolo nel suo incanto. Egli che aveva sofferto di rosolia facciale e che temeva l’ingrato inverno nordico, fu raggiante nel metter piede nel Paese dell’eterna primavera. “Qui almeno tutto ferve ed ha vita, qui non vi sono rovine”, egli scrisse con evidente allusione, a
certi torbidi intimi. E ancora: “Napoli, con la sua vivacità ed animazione, costituisce per me spettacolo di distrazione e di oblio”. Avvinto, non esitò ad esprimere enfaticamente quel suo stato d’animo euforico: “Qui l’uomo si sente come nella capitale del mondo”.
La sua esistenza napoletana si svolgeva serena. Riverito dalla parte eletta cittadina, era amato dal popolo al quale, nelle sue peregrinazioni, prendeva vivo interesse. Amava recarsi col trammetto a cavalli nel centro della città. A Santa Lucia, brulicante di barche e di pescatori, lo divertivano quelle donne piccoline dai capelli di ebano, dagli occhioni nerissimi e lucidi, che, attorniate da frotte di bimbi giulivi, facevano toletta all’aria aperta. Si recava ai riti e feste di popolo, amava far colazione con la famiglia alla Birreria Dreher e prendere il gelato di cui era ghiottissimo, al caffè dinanzi al Real Palazzo.
Il mondo musicale, in quel tempo, si esauriva nella formula melodramma italiano. Martucci, il grande futuro interprete wagneriano, era allora lontano e la futura generazione era in “incubazione“. A Wagner fecero gli onori di casa il vecchio bibliotecario del Conservatorio, Francesco Florimo, l’amico di Bellini (convertitosi al wagnerismo da quando il Maestro ebbe ad esprimergli a viva voce la sua ammirazione per l’autore di Norma) e il Duca di Bagnara, membro del Consiglio direttivo di San Pietro a Maiella, Florimo accompagnò Wagner al San Carlo per una rappresentazione dell’Ebrea di Halévy e al teatro Bellini per una edizione del Barbiere rossiniano interpretato dalla Donadio (Dio! quei cantanti! – pensò Wagner – Perchè agiscono con le mani sul cuore e rivolti solo e sempre al pubblico?). Il Duca di Bagnara invitò il Maestro a due feste musicali che il Conservatorio dava in suo onore: visite ufficiali arcinote nei particolari quanto la famosa lettera che, in segno di ringraziamento e di ammirazione per le ottime esecuzioni di musiche sinfoniche, Wagner scrisse al Duca e nella quale sono espressi, fra l’altro, preziosi consigli ai cantanti per spronarli ad abolire ogni iperbole espressiva studiando Mozart, Gluck e Spontini.
Ma queste visite ufficiali erano rare: Wagner doveva lavorare e amava quel suo vasto studio sul mare nel cui centro, ad evitare il fastidio della eccessiva luminosità dell’aria che lo feriva, si era fatto costruire una tenda ove si rinchiudeva per il suo lavoro.
Il lavoro intanto procedeva sicuro, ma lento: Wagner non istrumentava più di due o al massimo tre pagine al giorno. Ma era lieto, e con lui tutta la famiglia che lo venerava come un nume. Per il compleanno del Maestro, la sera del 22 maggio, gli fu preparata una festa orientaleggiante. I figliuoli gli recitarono una commedia scritta da Donna Cosima e a sera, quando giunsero numerosi amici di Monaco, si snodò un grande corteo marinaro con barche infiorate e illuminate, splendori vividi di bengala e armonie canore. Le canzoni di Napoli ebbero in quel quadro dalboniano un posto d’onore. Wagner rimase così commosso da quelle purissime melodie popolari da voler poi condurre con se, a Monaco, il migliore fra i cantori, o’ Zingariello, che fu uno dei più espressivi posteggiatori di ristoranti e che, fino agli ultimi anni di vita, cioè fino a sedici anni or sono, rievocava con commossa fierezza quella sua avventura wagneriana.
Il Maestro era raggiante: nel salone adorno di tanti rosai quanti erano i suoi anni, era stato per la prima volta eseguito il coro mistico che i bimbi cantano nel primo atto del Parsifal. In questa atmosfera egli decise di visitare Amalfi e Ravello: urgeva pensare alle scene del secondo atto. Così la mattina del 25, in vettura speciale, la comitiva si recò ad Amalfi di dove, come dicevo, il giorno seguente a cavallo di pazienti asinelli, fu raggiunta la piazzetta alberata di Ravello.
Dopo una visita al Duomo il Maestro volle subito raggiungere Villa Rufolo. Il fattore del tempo, don Luigi Cicalese, che divenne poi il custode della meravigliosa villa, narrava con gioia mista a fierezza le vicende di quella visita che doveva rimanere celebre negli annali di Ravello. Una trentina di anni fa il vecchio don Luigi riandando con la memoria vividissima a quel lontano giorno, volle rievocarmi nella tipica sua parlata dialettale i particolari della visita.
Il Maestro, piccolino ma robusto, che indossava l’inseparabile soprabito marrone e il largo cappello di feltro (a tavola, poi, mise il suo celebre berretto di velluto rosso), era irrequieto, tutto scatto nella voce e nei gesti, Ma quella irrequietudine era allegria schietta, gioia quasi infantile, traboccamento dello spirito dinanzi a quell’orgia di luce e a quelle meravigliose testimonianze di una storia vetusta. Alla vista del palazzo Rufolo, svettante dalla folta massa di verde col sua torrione, col sua cortile moresco circondata dal bizzarro colonnato arabesco, vestigia di una grande civiltà millenaria, Wagner non ristava nei panni, impose al pittore loukowsky di prendere subito uno schizzo per creare la torre di Klingsor e s’inoltrò quasi correndo pei giardini.
Don Luigi Cicalese ricordava come l’entusiasmo del Maestro fosse accesa da quella lussureggiante vegetazione orientale, dai fiori occhieggianti nelle inverosimili colorazioni, dalla vista abbacinante del mare immenso che, dalla terrazza che si staglia a picco sulle onde da una altezza di circa trecento metri, appare tutt’uno col cielo cullandovi in quell’oceano azzurro.
Tutt’intorno fiori e alberi e piante rare dalle larghe foglie spioventi ad ombrello. Su pei muri millenarii, i rampicanti folti e densi si abbarbicavano rigogliosi, mettendo una nota di tenerezza in quella prepotente esplosione della Natura. È un quadro d’Oriente, di un Oriente fastoso, possente e insieme tenero, che accende nel sangue un’inestinguibile sete d’amare.
Fu allora che il Maestro ebbe la visione pittorica e coloristica del giardino di Klingsor e che incitò il pittore a prendere tutti gli appunti necessari: aveva finalmente il suo scenario.
La colazione – preparata in una trattoria campestre, tenuta da un’ottima donna svizzera che si era maritata a Ravello – fu brillantissima. In Wagner non era più traccia della passata scontrosa riservatezza. Era convertito all’ottimismo. Vibrava tutto e lodava ogni cosa, dalla squisita galantina di pollo – che potette magnificare alla gentile ostessa nel comune idioma – al panorama, alle remote architetture che risaltavano in una singolare incredibile armonia in quell’opulenza della natura.
Era tanto soddisfatta e felice, da decidere di pernottare a Ravello. Ma, ahimè!, la Ravello del 1880 era ben lontana da quella odierna: non esisteva un albergo capace di ospitare tante persone. E Wagner – che sull’ultima pagina dell’albo della locanda scrisse la frase diventata poi celebre: “Finalmente il giardino di Klingsor è trovato!” – si lasciò andare dalla vena di quell’ora epicurea per trasformarsi in progettista. Tracciò infatti il piano di un futuro grande albergo da far sorgere in quel luogo a Ravello, indicando persino l’architettura che avrebbe dovuto arieggiare quella arabo-normanna delle antiche vestigia locali. Il consiglio fruttò, perché furono gli stessi proprietari della
locanda che ospitò Wagner a far sorgere quell’albergo immaginato dal Maestro e nel quale oggi si conserva, preziosa reliquia, l’autografo wagneriano.
Non è dunque vero quanto comunemente si ritiene, che Wagner cioè avesse avuto in Ravello l’ispirazione per la scena delle fanciulle-fiori: il Maestro, invece, in quelle brevi ore di permanenza a Ravello, (chè mai più gli fu concesso ritornare in quel magico luogo) ebbe la visione precisa della scenografia che fece fedelmente realizzare dagli schizzi presi sul posto in scenari che per circa
quarant’anni hanno figurato sulle scene del suo teatro.
Wagner seguitò a lavorare durante l’estate e fine luglio tentò anche qualche bagno di mare dietro consiglio del suo medico, il prof. Schron, che fu poi insigne docente dell’Ateneo napoletano. Ma una minacciata ripresa della rosolia facciale lo spinse a lasciar Napoli nell’agosto per raggiungere Siena.
“Meno Africa e più Italia” disse. E partì.
Egli non rivide mai più Napoli, nè Ravello, che rimase per lui una visione di sogno, visione fugace, ma indimenticabile.
ANTONINO PROCIDA