L’avvocatura ieri e oggi. La parcella per gli antichi romani.
Se ne fa un gran parlare nei corridoi di tutti i tribunali, dove gli avvocati continuano a dolersi della scelta del passato governo Monti relativa al decreto sulle liberalizzazioni e per la quale aspettano con ansia una controriforma.
La questione è semplice: gli avvocati non ne possono più di non poter ricorrere al tariffario professionale nell’elaborazione delle loro parcelle. Con l’entrata in vigore della nuova legge di riforma dell’ordinamento forense (L. 247/2012) si è determinata una situazione di stallo che perdura a tutt’oggi e che riguarda i «parametri» per la determinazione del compenso professionale.
L’intervento riformatore del Governo aveva infatti inteso affermare la propria vocazione liberista anche sul terreno delle famigerate tariffe professionali, luogo simbolo del presunto conflitto tra sistema ordinistico e disciplina della concorrenza. L’abrogazione delle tariffe e il passaggio al sistema parametrico pare però abbiano determinato per la categoria un indiscriminato abbattimento, anche fino al 50%, degli importi relativi ai compensi, realizzando una finalità del tutto diversa rispetto agli obiettivi del provvedimento, consistenti in una semplificazione del sistema in funzione di una maggiore trasparenza. E così, per gli avvocati la situazione è ora al collasso. Ma basta fare un passo indietro nella storia per capire che in passato le cose si muovevano in modo ben diverso.
Fra l’avvocato dell’età romana e l’avvocato dei nostri giorni ci sono delle differenze essenziali. Oggi l’avvocatura è una professione e nessuno trova strano che ci sia chi vive facendo l’avvocato e basta, che cioè si occupi soltanto delle pratiche del proprio ufficio. Per i nostri antenati togati invece l’esercizio dell’avvocatura era una funzione civile, a cui ci si dedicava gratuitamente, mirando al vantaggio che ne derivava in autorità, considerazione e prestigio nella vita politica e non certo al denaro.
La gratuità dell’assistenza forense va però intesa con larghezza: nonostante che una legge, la lex Cincia, che è del 204 a.C., avesse stabilito ne quis ob causam orandam pecuniam donumve acciperet, (letteralmente, che nessuno potesse ricevere soldi o doni per una causa discussa), più tardi, in età meno antica quel divieto non venne rigorosamente osservato, specie per i regali. Si trattava di una di quelle leggi (leges imperfectae) che non dichiaravano nulli gli atti posti in essere contra legem, né comminavano sanzioni per i trasgressori. Era, per giunta, una legge che tendeva ad andare in desuetudine, e si dovette più volte richiamarla in vigore, l’ultima volta vi provvide Augusto. Per quanto riguarda gli onorari dell’avvocato invece la situazione era questa: il cliente non aveva l’obbligo di dare, né l’avvocato il diritto di chiedere, e tanto meno di esigere ricorrendo a tassazioni e a procedimenti esecutivi.
Oggi sarebbe impensabile, è vero, ma quello che è veramente singolare è che il patteggiare in anticipo il prezzo della difesa era una fatto assolutamente disonorevole. Esisteva infatti all’epoca un’ aura di prestigio che contornava la figura dell’avvocato e che era pressoché intoccabile. Il preventivo sul prezzo finale insomma, era impensabile per una persona che ambisse ad essere stimata. Tuttavia, se a causa finita l’uno dava e l’altro prendeva (e non è detto che questo dare e prendere avvenisse sempre) tutto andava liscio. La rimunerazione era un fatto privato e non necessario, e restava sostanzialmente fuori del quadro del pubblico patrocinio. Del resto in tutta l’età della Repubblica l’avvocatura era un’attività che non può essere separata dal complesso di attività dell’uomo politico romano, in un mondo nel quale non si trionfava senza aver grandi ambizioni e senza affrontare grandi lotte. Il lato finanziario di quell’attività restava tutt’al più un’amichevole appendice.
Per trovare una più precisa coincidenza tra l’avvocato romano e il nostro, bisogna aspettare soltanto la caduta della Repubblica, e assieme ad essa lo spirito di libertà e l’insieme dei valori che la sorreggevano.
Insomma, Cicerone avvocato, non era l’avvocato Cicerone, tanto per rendere l’idea. I tempi non sono del tutto cambiati ed ancora succede, quasi di norma, che avvocati, specie se giovani e del sud Italia, si ritrovino a rendere pareri legali o a patrocinare cause senza alcun compenso. Se a questo si aggiunge poi l’abolizione delle tariffe forensi e la conseguente difficoltà nell’elaborare parcelle a forfait, allora ecco presto detto lo stallo di cui sopra.
Il Governo, oggi come allora, dovrebbe tenerne conto. Specie quando poi va a batter cassa.
Andrea Gambardella