Felice l’uomo che realizza da adulto i sogni coltivati da bambino. È un citazione che mi accompagna da sempre, che ho fatto mia, che è parte di me. Al punto che non ricordo più nemmeno dove l’abbia letta, chi l’abbia pronunciata. Addirittura non sono nemmeno sicuro che l’abbia mai detta o scritta qualcuno.
Come avviene per i nostri ricordi più antichi, quelli che crediamo di aver rintracciato nel nostro passato di fanciulli, che crediamo davvero di avere vissuto.
E magari sono discorsi carpiti a brandelli dal parlarsi dei grandi, quando avevamo pochi anni, addirittura pochi mesi. Ma riconosciamo come nostri. Profondamente nostri più di quelli, certissimi, che hanno formato il nostro vissuto. Perché appartengono alla categoria dei ricordi che ci siamo scelti, che non abbiamo dovuto eccettare, subire.
Deve appartenere a questo genere la felicità dell’anziano presidente Napolitano, quando è riuscito a ridurre la crisi politica italiana ad un unico sbocco possibile: le larghe intese. Quando ha definito un progetto di programma e di governo che poteva essere attuato soltanto ad una condizione: che si realizzassero le larghe intese.
Un sogno, quello del vecchio presidente, che ha coltivato davvero dall’infanzia della sua esperienza politica. Da quando accoglieva a Napoli nel ’44 Togliatti sbarcato con il lucido disegno di realizzare un governo di larghe intese per battere il fascismo: innanzi tutto. Anche con i monarchici? Anche con i monarchici. Anche con chi era stato fino all’altro ieri tenero con il regime di Mussolini, timoroso di contrastarlo? Anche con questi.
Un sogno, quello di Napolitano, che si era già frantumato di fronte al diktat subito da Da Gasperi dagli Usa già decisi alla guerra fredda. Un sogno, comunque, che si ripropose negli anni settanta con Enrico Berlinguer, con il suo grande disegno del compromesso storico. E che finì tragicamente sotto i colpi che misero fine alla straordinaria persona di Aldo Moro, prima ancora che dall’accordo del Caf di Craxi, Forlani e Andreotti.
Ci sono analogie, oggi, con quelle stagioni. Soprattutto con quella degli anni settanta. Ancora la stessa ostinazione a non ascoltare gli umori di una società in ebollizione, che aveva dato vita ad una lunga serie di esperienze di partecipazione democratica e di elaborazione politica. Che aveva visto emergere nuovi soggetti e nuovi bisogni. Ancora lo stesso aristocratico sentimento di sufficienza di chi –unico- sa come si governa un grande Paese, e confida nei gruppi dirigenti, nelle strutture e nelle organizzazioni creati negli anni per esercitarlo, il governo del Paese.
Sappiamo che lo sbocco di quelle sconfitte fu doloroso: il triste dominio democristiano degli anni cinquanta, la vana euforia neoliberista degli anni ottanta. Con il corollario del montare della crisi italiana.
E ancora adesso, in questi ultimi mesi, abbiamo visto rimontare questo fantasma del passato: le larghe intese. E abbiamo sacrificato l’autonomia di un programma di cambiamento, lo sforzo di creare un soggetto politico progressista, i gruppi dirigenti, i leader più prestigiosi.
Tutto, per realizzare un sogno da bambino. Le larghe intese.
Solo che, oggi, le larghe intese lasciano comunque fuori un terzo almeno delle forze in Parlamento, e molto di più nel Paese.
Solo che, oggi, non si tratta di intendersi tra Togliatti e De Gasperi. Tanto meno tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro.
Oggi, le larghe intese, dovremmo farle con uno sberleffo della storia, con Silvio Berlusconi.
Ernesto Scelza
Salerno 25 aprile 2013