La ricerca dell’alba. Il Cilento dalla pre-protostoria alla storia.

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di Pasquale Martucci

Quello di Flaminia Arcuri è un libro interessante e particolare, perché descrive il Cilento a partire dalla pre-protostoria con scientifica cura, dovuta all’attività di ricerca e alla partecipazione a progetti in ambito archeologico, che testimoniano epoche poco conosciute tra costa e interno del territorio. Il panorama dei comuni cilentani è vasto: Agropoli; Albanella; Ascea; Camerota; Campora; Capaccio; Casal Velino; Castelnuovo; Caselle in Pittari; Castellabate; Centola-Palinuro; Controne; Corleto Monforte; Laurino; Magliano Vetere; Novi Velia; Roccadaspide; Roscigno; Sant’Angelo a Fasanella; San Giovanni a Piro; Sacco; Serramezzana; Stio; Vallo della Lucania. In questi centri sono presenti grotte, insenature, promontori, rovine, acropoli, gole, e quant’altro possa ricondurre a tempi veramente remoti.

Eppure, se una volta quelle rovine e resti non erano che pietre oscure che nascondevano chissà quali segreti, oggi le ricerche dimostrano che un’alba si sta affacciando, una visione sempre più chiara e nitida, un passato più vicino nonostante i millenni trascorsi.

La studiosa leggendo la storia e supportandola con tantissime evidenze scientifiche, individua l’azione dei popoli che nella vasta area prima erano solo cacciatori e raccoglitori, e parliamo del Paleolitico e Mesolitico di cui si hanno pochi riscontri. Il suo punto di partenza è invece il Neolitico, quando si realizza l’opera di antropizzazione del paesaggio, che permette all’uomo di consolidarsi e di avere strette interconnessioni con tutto ciò che è ambiente circostante. Si trattava di raggruppamenti umani non rilevabili solo in termini tecnico-archeologici, ad esempio la tipologia ceramica che rende chiarezza nelle varie epoche succedetesi, piuttosto componenti socio-antropologiche. In sostanza, le comunità di agricoltori, di allevatori, le attività di scambio tra prodotti ittici della costa e risorse montane, sono presenti e si consolidano nel territorio in circa 5000 anni. Poi si affascia la storia, con la colonizzazione greca, e dunque con un’organizzazione molto più precisa e complessa, di cui tanti studi ormai si occupano.

In quell’intervallo tra pre-protostoria e storia, si afferma un mondo indigeno fatto di territorio sfruttato e incontaminato, di comunità piccole e grandi, di uomini e donne, di lavoro e svago, ma soprattutto di religiosità e desiderio di potere o comando, di integrazione tra i popoli con le acquisizioni delle conoscenze più funzionali alla stessa esistenza.

Dal Neolitico, intorno ai 4000/4500 anni a.C., ci sono le trasformazioni dell’habitat che condizionano gli stili di vita. Le comunità, il riferimento è alla zona pestana, formano reti commerciali di scambi e relazioni. Ad attestare il riscontro, ci sono: una pregevole ceramica in argilla, scodelle, tazze ed anfore dipinte; l’evidenza di usi e costumi, rituali legati a divinità (la Venere neolitica); gli strumenti ed utensili che progrediscono nel tempo.

Il volume parte dalla trasformazione dell’habitat e l’ingresso nel Neolitico di agricoltori e allevatori, pescatori costieri e pastori, cacciatori delle zone interne. L’Eneolitico è l’Età del Rame, quello importante della cultura del gaudo, su cui si sono soffermati svariati lavori anche in questo territorio. Spina-Gaudo è il nome della località vicino alla foce del Sele dove è stata individuata la necropoli: nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum troviamo la ricostruzione di una delle tombe ritrovate, con tantissimi reperti risalenti alla fine del IV millennio e la prima metà del III. Allora, le popolazioni sono riunite in clan familiari con una forte connotazione guerriera e l’economia è agricolo-pastorale, con scarsa mobilità. I legami sono monogami e con discendenza patrilineare, mentre le donne hanno un rilievo minore. L’Età del Bronzo, molto variegata per la Arcuri, produce tanti cambiamenti, dai villaggi costieri e interni, alle realizzazioni di opere molto più strutturate, in pietra. Gli insediamenti avevano estensioni notevoli: il riferimento è alla parte settentrionale della piana del Sele e verso il Vallo di Diano. Nel Bronzo Medio (1700-1300 anni a.C.) si sono rinvenuti strumenti per la trasformazione lattiero-casearia. Intorno al XI-X secolo a.C., si afferma l’esperienza enotria, partita da Sibari per ampliare il raggio d’azione nel Tirreno. Avviandosi all’Età del Ferro, si afferma la cultura villanoviana, quella degli Etruschi che giungono a Pontecagnano e poi si spostano verso il Diano. Queste comunità sono chiamate “etruschi di frontiera”, e formano enclaves all’interno di un territorio dove prevaleva la cultura indigena. Il contatto fra le diverse componenti etno-culturali si manifesta nell’interscambio di prodotti e manufatti e nell’acquisizione reciproca di rituali. I centri villanoviani campani del IX sec. a.C. assumono i caratteri di un agglomerato proto-urbano, capace di controllare vaste estensioni territoriali e di pianificare l’occupazione degli spazi riservati ad abitato e necropoli.

C’è un’organizzazione sociale molto definita: il ruolo dell’uomo è legato alla guerra e alla caccia, le donne al contrario si occupano delle incombenze domestiche della filatura e tessitura, unitamente alla produzione di ceramica lavorata a mano. Se il centro di Pontecagnano è importante ed esteso, i popoli delle dune e del mare, indigeni di origini differenti, si riuniscono in piccoli aggregati che sorgono lungo i laghi costieri e le direttrici di percorrenza, che collegano la costa con l’interno con funzione di controllo dei traffici.

A Paestum, nel VI secolo a.C., vi sono resti di una tomba “sconvolta dalla costruzione della città greca”; ed allora è pensabile che molto prima dell’arrivo della cultura ellenistica ci siano già state popolazioni indigene organizzate, che pure avevano voglia di acquisire usi e costumi esterni. È un’epoca importante, con vaste necropoli, riti sepolcrali, una cultura proto-estrusca che si ispira al commercio, ai traffici e alla navigazione. Gli insediamenti villanoviani sarebbero concentrati in collina, vicino a fonti d’acqua pura, mentre altri insediamenti più piccoli sono nelle zone costiere. Essi si sviluppano all’interno di aree culturali differenti: l’affermazione è legata ad isoglosse etrusche rispetto ad un’area linguistica preesistente.

In queste lunghe fasi protostoriche, c’è cultura orale, che tuttavia si esplicita anche attraverso la danza, la musica, i graffiti e i dipinti, oltre al progredire degli utensili. Poi, il territorio vede l’ingresso graduale nella storia della civiltà greca, e tutto diventa più conosciuto: ora c’è apertura, cooperazione, convivenza tra greci, etruschi e indigeni.

Sarebbe interessante, si chiede l’autrice, individuare una specifica identità. Siamo convinti che la stessa si sviluppi e consolidi nel tempo; ora Arcuri la porta sempre più in là, più lontano, facendoci riflettere sull’esigenza umana di tipizzare i luoghi ed affermare vita e costumi di un territorio, oltre che i comuni tratti e confini. Scrive che l’identità ausone sembrerebbe prevalere nell’Età del Bronzo; in seguito con l’Età del Ferro prevarrà il mondo enotrio. Ad ogni modo, proprio per il carattere ibrido dell’identità, i centri delle dune cilentani si uniformeranno al modello culturale dei centri etruschi di maggior rilievo in Campania. La stessa influenza etrusca è data dal toponimo Cilento, che molti studiosi riferiscono alla divinità Cilens. Se, dunque, è difficile assegnare una comune identità etnica a tutto il territorio cilentano, la Arcuri sostiene che nel nostro territorio si sono caratteristiche enotre: “enotri acculturati etruschi, ma etnicamente enotri”.

Si tratta di considerazioni di un certo interesse, specie se a supporto di valutazioni identitarie e costruzioni comunitarie che avvengono con comunità sempre più consolidate e che necessitano di formali rituali e definizioni di una tipica appartenenza.

Per dare squarci di luce, e rendere tutto più chiaro rispetto al buio dei decenni precedenti, oggi è intervenuta per asserzione degli studiosi un’archeologia sempre più legata alla tecnologia: c’è una geoarcheologia, poi un’archeometria, un’archeobotanica, un’archeozoologia, per giungere di recente all’elettronica e all’informatica. Queste evoluzioni tecniche hanno consentito di affinare gli studi e le ricerche e di avere un livello di attendibilità di conclusioni che per tanto tempo sono state manifestate con grande cautela. L’utilizzo della tecnologia consente a professionisti e studiosi di affinare metodologie e strumenti, in termini di acquisizione, elaborazione, interpretazione dei dati. In particolare, permettono una maggiore accessibilità e valorizzazione dei siti e del patrimonio archeologico e culturale italiano, senza poi trascurare gli strumenti divirtual realityo diaugmented reality, oppure applicativi di digital storytelling e Interactive Media Applications, per il coinvolgimento del pubblico.

È una novità questo lavoro, afferma Fernando La Greca che ha realizzato la prefazione. Pare di comprendere e approvare le meraviglie di queste testimonianze, fondate sui riscontri archeologici, prima limitate all’inizio della storia da centri importanti come Paestum, Velia, Policastro, Teggiano, Padula, ovvero quelli più conosciuti e resi tali dall’introduzione della storia.

Si è finora trascurato proprio quell’alba che fa emergere la luce, rilevando la cultura e l’esperienza dei popoli, con riscontri lenti ma evolutivi, attraverso uno studio tecnologico dovuto alle variazioni delle lavorazioni, ma anche ai cambiamenti insediativi e abitativi: dalle grotte, alle capanne, alle costruzioni in pietra. E quell’alba sarà ulteriormente consolidata da altri e ulteriori passi che saranno compiuti solo se si preserveranno i siti e si permetterà di attivare iniziative e progetti per rendere ancora più interessante un’azione di ricerca sui millenni che si sono succeduti nel nostro passato.

In questa pre-protostoria c’è una cultura importante che Flaminia Arcuri riesce a trasmetterci con grande capacità: è un lavoro scientifico di pregio che produce nel lettore notevole interesse e tanta curiosità.