La morfologia megalitica nel Cilento

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di Pasquale Martucci

Il volume di Luigi Leuzzi è il tentativo di riconoscimento e di classificazione del megalitismo nel Cilento, attraverso la forma e la struttura di cui si compongono i segni e i simboli del passato. È soprattutto il modo di rilevare le espressioni culturali che sono variegate, come lo sono i monumenti che caratterizzano il territorio e la sua storia millenaria.

Quale metodo utilizzare per compiere questa operazione?, è il quesito che si propone l’autore.

Un primo indizio è contenuto nella frase: “espressioni architettoniche di tipo naturalistico”. Possiamo considerare a tal proposito due termini: architettura e naturalistico.

In quest’ultimo caso è ciò che si basa sul mondo naturale o sulla venerazione delle forze naturali che riconducono a quelle potenze che hanno poco di tangibile e che riportano all’immateriale. È la forza che Rudolf Otto colloca nella categoria di numinoso, ovvero l’“oggettivazione del divino come forza esistente fuori di noi”, una esperienza extrasensoriale di una presenza invisibile, potente, che ispira terrore e al tempo stesso attira. È l’elemento essenziale del sacro, i miti delle origini che vengono colti attraverso un significato simbolico, ponendo importanza ad un tempo primordiale, alla possibilità di una “creazione”, ad un valore “archetipale universale” (Mircea Eliade).

Ma l’architettura non è costruzione dell’uomo, mentre il naturale non potrebbe essere tutto ciò che è lontano dall’intervento umano? Forse che per naturale si intendono le pietre e i reperti che oggi paiono stabili, senza storia, un eterno presente, se non è possibile una datazione certa, quasi tutta affidata a qualcosa considerato preesistente lo sviluppo della storia stessa, almeno quella comune e più accettata rivolgendosi alla documentazione trasmessa? Ed allora, forzando un po’ il ragionamento, che fare se non individuare un approccio ermeneutico e dunque interpretativo per considerare lo studio di megaliti, al di là delle evidenze?

Il punto di partenza parrebbe affidato proprio a quel naturale, il tempo iniziale, il presente astorico, quello dell’iniziazione antropica a contatto con la natura selvaggia. Ecco, si potrebbe proprio iniziare quando la natura si piega alle esigenze umane, siano esse costruzioni comunitarie, quando la comunità non più nomade ma meglio organizzata traccia i segni della presenza di una “religio”, di cui parla Leuzzi. Parrebbe questo il tempo zero dell’azione dell’uomo; poi niente sarà più lo stesso perché interverrà la storia e le dinamiche che porteranno l’uomo ad agire per esercitare la sua presenza e realizzare i segni megalitici che comunque vanno colti e interpretati.

L’ermeneutica è una lettura/spiegazione per giungere ad una comprensione che coinvolge l’interprete quando matura una conoscenza via via più diversificata, adeguata ed esperta: una comprensione nuova rispetto all’opera d’arte, qui parliamo di segni impressi nei luoghi e nel tempo. Dilthey sosteneva che interpretare è “dare vita alle forme esangui del passato”; per fare ciò occorre però portare all’universalità, ovvero slegare l’ermeneutica dal ristretto ambito delle apparenze, che significa ampliare i saperi e connetterli, non parcellizzarli e disciplinarli in ambiti specifici. Schleiermacher affermava infatti che l’ermeneutica dovesse muovere dal fraintendimento, dall’oscurità; e mi pare che il tentativo di Luigi Leuzzi sia proprio di partire dall’oscurità e offrire sprazzi di luce attraverso articolazioni di saperi che vanno oltre le mere considerazioni archeologiche. In tal modo, l’arte è più viva e viene sollevata verso nuovi orizzonti di senso, attraverso il dialogo con l’arte (Gadamer).

Inizia qui l’ermeneutica di Leuzzi dopo la scoperta dei simboli identitari. L’autore ce li presenta in sequenza, quasi fossero tutti in serie, in un unico luogo, quando invece i luoghi sono distinti e gli stessi segni difformi.

Eppure sono lì che si susseguono: “a preta ru lu mulacchiu” (Monte Stella), “il  solco della fecondità” (Civitella di Moio), “a preta ru l’ommu” (Cervati), “a ciampa ru cavaddu” (Monte Sacro), “u mantu ra Maronna” (Monte Sacro), l’Antece a Costa Palomba, e così via.

Tra i simboli del territorio, la Grande Madre, come pure la dea civetta – Cilens, è presente in tante espressioni della religiosità popolare, riconducibili al ruolo femminile esercitato nelle comunità e valorizzati dai culti e dalla ritualità dedicata alla Vergine Maria. È un’architettura sacra che serviva a normare lo spazio antropico trascendendo il tempo.

Quello dell’autore è un approccio di presentificazione per dare l’idea a chi si affeziona a questi megaliti (le immagini sortiscono questo effetto) di disporli in sequenza per dire: questo è il nostro passato, questi i simboli identitari del Cilento.

Nel lavoro, dopo quanto sostenuto, non si può che compiere il passaggio ulteriore di insistere sulla dea Cilens e sulla presenza degli etruschi di confine che dal monte Stella vanno verso Capo di Fiume, Licosa, Capo Trezene, e poi, da un’altra parte, verso il Diano passando per il Calore. Sono etruschi villanoviani che lasciano “traccia del culto di un nume femminile”, espressione del Genius loci di questa terra, la sua anima.

Sull’Antece si soffermano molte considerazioni ermeneutiche, come del resto avviene anche sulla componente femminile di Cilens, Grande Madre, soffermandosi su ipotesi di studiosi e indizi che portano dritto a San Michele Arcangelo.

Altri sono gli esempi di corrispondenze simboliche e mito-archeologiche in siti sparsi nel territorio, tra cui San Mauro La Bruca, oppure il Monte Grottillone a Torraca.

L’idea dell’autore è proprio quella di presentificare il nume tutelare di un territorio cui rivolgere gesti rituali e adorazioni collettive. I suoi studi ermeneutici sono l’occasione per riscoprire “una fondazione antica della communitas”, rinviando ad un tempo in cui si realizza l’incontro relazionale tra uomini che decidono di costruire insieme la loro storia e ne tracciano significati e simboli regolativi dei comportamenti comunitari.

Il libro è ricchissimo di immagini che servono a tracciare la presenza antropica in un passato remoto e a significare una storia millenaria sospesa, come sembrano le foto impresse senza un mancato approccio interpretativo. Leuzzi al contrario interpreta quelle pietre con contributi che riconducono ad avvenimenti che segnano sempre una evoluzione storica che nel tempo permette di abbandonare una visione che non riuscirebbe a considerare i mutamenti e le nuove e diversificate esigenze delle attuali società.

In conclusione, questo volume sembra essere una fruttuosa relazione che porta lo spettatore, chi si rivolge al proprio passato, ad essere inglobato nell’architettura sacra delle espressioni simboliche del Cilento ed a cogliere il fascino delle risorse di cui questa terra è particolarmente feconda.

Pasquale Martucci 

 

(Questo scritto è l’introduzione al libro di Luigi Leuzzi)