Il Museo virtuale del FRaC spalanca le antiche stanze della Galleria dei Frati proiettandosi online, nel tentativo di mantenere dinamico e vitale il dialogo sull’arte. È stata inaugurata l’anteprima digitale della mostra dell’artista napoletano Arturo Pagano, Opere 1977-1985, che sarà allestita in presenza nella prossima primavera. Ad introdurla il critico d’arte e direttore del Museo, Massimo Bignardi. Un vernissage che, in poche ore, ha ottenuto centinaia di condivisioni e di visualizzazioni.
Oltre quaranta opere, dipinti e disegni, realizzate dall’artista tra il 1977 e il 1985 nei suoi lunghi soggiorni romani, respirando l’aria dei cambiamenti di una pittura che ritrovava una sua nuova prospettiva. Sono opere che testimoniano dei legami con il mondo mediterraneo, abitato da figure mitologiche e da archetipi che pagano lascia affiorare come segni di una sentita, profonda identità.
«RIPARTIRE DAL ‘GRADO ZERO’ PER RIPENSARE LA PITTURA FIGURATIVA», così scrive il professore Massimo Bignardi, nel catalogo monografico che accompagna la mostra.
“Sono certo, conoscendo Arturo da poco meno di quarant’anni – scrive Bignardi – che fu il segnale per ripartire, lasciandosi alle spalle le acque esondate del Calore, che attraversano Benevento e che portarono via l’attrezzatura fotografica finita nel fondo, le casse con all’interno le opere che rientravano dalla mostra, tenuta settimane prima a Colonia e, con esse, quelle sulle quali stava lavorando.
È paradossale, ma del suo passato artistico si erano salvate le prime opere, i dipinti, le carte, i cartoni, che avevano segnato il suo approccio alla pittura. Ripartire, con in mano le sole opere, mai esposte, ad eccezione della mostra, la sua prima personale, tenuta a Milano a fine anni settanta: lavori, presto accantonati, messi da parte non perché li ritenesse esperienze di una stagione tramontata, bensì per rispondere allo sviluppo di progressivi nuovi momenti creativi, alimentati dall’inquieto eclettismo che governa il suo immaginario.
Alla decisione di ripartire dal ‘grado zero’, ha fatto seguito il lungo, accorto lavoro di restauro; un foglio dopo l’altro asciugato con cura, evitando interventi ex-novo, cioè rinunciando ad ingombrare con nuove colorazioni la delicata trama di segni che le carte o i cartoni avevano conservato. È stato un esercizio delicato, richiamando, a volte, emozioni lasciate al tempo, disposte, però, a dare il senso di quella durata, di cui parla Bergson, che non può non sostenersi sulla coscienza. Il recupero oggettivo, in pratica il processo che formalmente mira a restituire l’unità compositiva dell’opera, diviene motivo per ripensare alla pittura figurativa, il che non è stato l’abbandono di quel dettato astratto e neocostruttivo, che ha segnato e segna i lavori di questi ultimi cinque anni.
È stato mettere in atto un processo, guidato dalla coscienza, che gli ha permesso di ricongiungersi con la pittura, con i miti, le relazioni, le passioni, che accesero la stagione, a cavallo di due decenni, nella quale, ondivago, si muoveva tra Napoli, Roma e Milano. Dai disegni, dalle tempere e, soprattutto dall’impaginato compositivo dei grandi cartoni, eseguiti dopo il 1982, che accoglieva forme a rilievo di elementi monocellulari, racchiusi in luminose auree solfuree, emergevano figure mitologiche. Sono figure di un paesaggio arcaico, che l’artista intrecciava con l’animata vita della sua terra, dei miti che, dalla scogliera sulla quale si affaccia la sua città natale, Torre del Greco, sale fin su la bocca del Vesuvio, dalla quale lo sguardo domina l’intero golfo di Partenope. Figure di una terra ancestrale, che Pagano avverte quale sua profonda identità esistenziale, come archetipo, avrebbe detto Jung, al quale si radica l’intera sua esperienza creativa”.
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