“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. È l’incipit, nero su bianco della nostra Costituzione che sancisce un dovere, ma prima di esso, un diritto.
Primo Maggio, festa del lavoro che dovrebbe essere di tutti, ma così non è. Un secolo fa la celebrazione nacque in seguito alle lotte della classe operaia: tante braccia a lavoro per sconfiggere i turni massacranti con una paga da fame.
Oggi la situazione è quasi capovolta: certo, ci sono ancora realtà dove lo sfruttamento persiste (ad esempio in molte zone rurali del Mezzogiorno) ma in ogni caso non si combatte più per un posto più decorso. Quando si trova qualcosa si è costretti ad ingoiare rospi amari per tenersi buono il proprio stipendio mentre nella maggior parte dei casi manca proprio un lavoro per cui lottare.
Una famiglia su due in Italia oggi è senza un reddito da impiego. È la fotografia scattata dall’Istat che rivela come al Sud siano 600 mila le famiglie che non arrivano alla fine del mese.
Nel dettaglio i nuclei famigliari sotto la soglia di povertà sono concentrati in Campania (54,6%), con a seguire Sicilia (47%), Sardegna (43%) e Calabria (42,5%). Non ci si fa, semplicemente.
Quali celebrazioni per il lavoro si possono fare, allora, quando questo rimane per pochi? È anche inutile cercare responsabilità: l’innovazione tecnologica, la mala-politica, il sistema imprenditoriale?
Bisognerebbe tornare a combattere ma è difficile farlo quando non si conosce nemmeno quale sia il proprio nemico. Si sa solo che di misure occupazionali, ora più che mai, ce n’è un bisogno assoluto.
E soltanto quando un lavoro sarà per tutti, allora sì, si potrà fare festa.