Il dilemma sociale.

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di Pasquale Martucci

«I social sono un “pharmakon” che cura e allo stesso tempo avvelena: da una parte permette l’incontro con persone e informazioni altrimenti irraggiungibili, e dall’altra precludono l’accesso ai metodi e alle profondità che sarebbero in grado di dare senso al vivere». (A. Colamedici, M. Gancitano, “Homo social. In cerca degli dèi”, colloquio con G. Catozzella, L’Espresso, 27 dicembre 2021)

Andrea Colamedici e Maura Gancitano sostengono che i social dovrebbero essere solo un veicolo per andare oltre. E lo fanno nel loro libro: “L’alba dei nuovi dei” (Mondadori, 2021), quando affermano che con l’avvento dei social si è persa l’arte di coltivare il dubbio, il conflitto, le complessità e si è affermato al contrario l’homo social. I social media infatti incarnano il tentativo dell’essere umano di superare il sé atomistico e creare un nuovo tipo di coscienza collettiva. Prendendo spunto dalla filosofia, che non solo può aiutarci a comprendere meglio il presente, ma anche a reinventarlo, sostengono che Eraclito diceva che non si può scendere due volte nello stesso fiume, essendo tutto in costante mutamento. Come Socrate e Platone hanno visto il tramonto del mondo mitico, così noi oggi ci troviamo di fronte alla rivoluzione della comunicazione, il linguaggio e le strutture sociali, sancendo l’alba di nuovi dèi (i social media).

L’approccio è critico, e non potrebbe essere altrimenti se guardiamo alla realtà del controllo dei dati degli utenti/consumatori online: si tratta di una forma di controllo sociale nel quale siamo immersi e monitorati in ogni istante.

Ho trovato in proposito illuminante un film/documentario: The social dilemma, non recentissimo ma disponibile su “Netflix”, in cui alcuni progettisti di piattaforme digitali, evidentemente consapevoli di essere altrettanto vittime del sistema da loro creato, illustrano il controllo del sistema capitalistico sulle vite di miliardi di persone ormai ridotte ad essere passivi e omologati cittadini.

Il dilemma fa riferimento alle implicazioni etiche e sociali dell’utilizzo della tecnologia e della produzione di disinformazione, ed in particolare come i social media manipolano l’individuo con lo scopo di generare profitti. Se ci sono state già strategie per indirizzare l’opinione pubblica, in questo caso si tratta di costruire ogni singolo cittadino attraverso sistemi che sono conosciuti agli studiosi delle neuroscienze. Ovvero valutare: il numero di reazioni ad un post, il tempo di visualizzazione, le ricerche utilizzate tramite Google. L’obiettivo è definire profili ad personam, che possono essere utilizzati da pubblicitari o politici per spostare l’attenzione di ogni utilizzatore verso specifici contenuti, alimentando un circolo vizioso da cui il cliente fa fatica ad uscire, trovandosi a circoscrivere tra l’altro la propria gamma di interessi a poche tematiche o personaggi. Ciò si realizza attraverso strutture di algoritmi con il fine di creare per ogni fruitore dei social una sorta di bolla, un mondo in cui si costruisce una propria verità e proprie motivazioni. Si crea un meccanismo cui noi stessi diamo indicazioni attraverso like, commenti, visualizzazioni e ricerche.

I progettisti con il tempo si sono stupiti degli effetti, come ad esempio l’influenza sui disturbi mentali degli adolescenti, comprovati dalla ricerca scientifica e dalle correlazioni statistiche: incremento di ritiro sociale, ideazioni suicidarie legate all’interazione con i social, depressione e ansia sociale, oltre che dipendenza inconsapevole dell’utente social.

Il racconto tratto dal documento è il seguente:

Si inizia con l’interazione con il social di turno che, forte del suo algoritmo, ci spinge continuamente a condividere nuovi contenuti. Successivamente avviene un’azione effettiva (il post, il retweet, il commento, o anche solo il rallentare davanti ad un’immagine’). Più lunga sarà l’attesa, maggiore sarà la soddisfazione nel momento in cui si riceve una reazione (un like, un follow, un commento) che viene interpretata dal cervello come ricompensa e che genera quella piccola scarica di dopamina sufficiente ad innescare nuovamente il circolo vizioso, che si protrae nel tempo e che può portare inconsapevolmente ad una vera e propria dipendenza, come accade per le sostanze stupefacenti e per le slot-machine”.

Il film/documentario racconta il cambiamento culturale perpetrato, attraverso la persuasione, dai social media nelle società di oggi. Si tratta di esperti del settore che hanno lavorato per i grandi gruppi e che oggi si interrogano sul problema (dilemma), sui rischi e pericoli dei social, sui modelli culturali imposti, sulle conseguenze delle fake news nell’era della disinformazione. Il tutto arricchito da personaggi coinvolti dai social, che corredano e rendono molto efficace il racconto del film.

Cosa non va? Cosa c’è dietro questi problemi? Il mondo è impazzito o è considerato tutto normale?

Sembra di essere dentro una specie di incantesimo, che vede cinquanta persone che decidono su due miliardi di persone. Se quindici anni fa si nutriva una profonda ammirazione per Google oppure Facebook oppure Instagram, oggi si crede che siano solo macchine che lavorano sul modello pubblicitario per far soldi.

Lanier ha rilevato come gli inserzionisti pagano per il prodotto realizzato, in cui le società competono per l’attenzione degli utenti e per trattenerli in collegamento. È la pubblicità, ma anche il cambiamento della percezione: si fanno previsioni e si hanno molti dati sugli utenti, con l’ingresso di un mercato che modifica il futuro degli esseri umani. In questo modo, si sono rese le società di internet tra le più ricche della storia dell’umanità.

I dati sono inseriti in sistemi che controllano: tutto è registrato per costruire un modello, che riguarda: a) coinvolgimento; b) crescita (portando sui social amici); pubblicità per ricavare soldi. Ed allora è importante cosa mostrare per ricavare soldi, perché la conoscenza online è basilare: “se due persone si connettono, una terza ti manipola”.

Affermano all’unisono gli esperti: è essenziale comprendere la mente delle persone, perché la gente non sa quanto è vulnerabile la mente. È la psicologia applicata alla tecnologia. Per modificare il comportamento degli altri devo scavare ad un livello profondo; ed allora si individua chi gioca alle slot machines, chi tagga gli altri tutto il giorno. Si risponde al contatto di uno sull’altro attraverso un vero e proprio hackeraggio. Coloro che lavorano ai social devono attrarre dieci amici al giorno, utilizzando ogni espediente per portare gli utenti a fare ciò che si vuole.

Se si vogliono far soldi, oppure convincere le persone come votare, si dirottano le emozioni nel mondo reale, anche se gli utenti ne sono all’oscuro. Vengono tutti spinti in un flusso di dati, attivando la loro dopamina. È la vulnerabilità della psicologia umana. Se hai a che fare con qualcosa che non è uno strumento, un qualcosa che non si usa, per realizzare gli obiettivi i social usano il tuo modo di pensare contro di te.

Se in alcuni momenti non posso fare a meno di Twitter, sono dipendente, sono drogato, perché non sono in grado di controllare l’utilizzo dei social. Provo con la forza della volontà ma non ci riesco. Voglio trovare amici e stare in comunità.

Il film mostra una famiglia che decide di fare a meno dei telefonini a cena. Si annoiano, non sanno cosa fare e come comunicare diversamente. La figlia rompe una teca in cui sono depositati tutti i telefoni per recuperare il suo e vedere chi la cerca. Poi neanche il figlio ce la fa e, dopo qualche giorno di astinenza, corre al cellulare per non essere tagliato fuori dalla sua comunità.

Oltre è presentato lo stesso ragazzo che è manipolato e si trova coinvolto in un movimento di proteste che non comprende. Infine è arrestato.

I social sono stati progettati per creare profitto. Prendono il controllo dell’autostima e coinvolgono i bambini, i più vulnerabili, la generazione millennials. Si tratta di una generazione depressa che non rischia; in tanti casi ci sono ricoveri in ospedale per traumi da social. Siamo però interessati a conoscere ciò che pensano gli altri di noi e non vogliamo non essere popolari.

Come si reagisce alla percezione che gli altri hanno di noi?

Che sta succedendo?

Alcuni sono spinti al suicidio, mentre prima c’erano più protezioni. È condizionata un’intera generazione, che crede di avere un ciuccio digitale che protegge, senza dover affrontare le cose. È il metodo dell’assuefazione.

L’intelligenza artificiale distruggerà il mondo?

Ci sono continui scambi di informazione, stanze piene di macchine, algoritmi, codici. E tutto per interesse commerciale indirizzato al profitto. L’algoritmo ha una mente sua, le macchine si modificano da sole, facendoci perdere il controllo sui sistemi. L’intelligenza artificiale anticipa le nostre mosse e la tecnologia sarà sempre più astuta di noi. È lo scacco matto all’umanità, perché c’è tanta informazione che contraddice la visione del mondo che ti sei creato.

Per fare un esempio, su Twitter le notizie false si diffondono sei volte più di quelle vere: è il sistema che orienta verso notizie false. Con le informazioni su larga scala guadagni di più e la gente non sa cosa è vero e ciò che è falso.

È uno strumento di persuasione: e se c’è un dittatore o persone di pochi scrupoli?

C’è meno controllo su chi siamo e su cosa crediamo veramente. Si usano gli strumenti che le piattaforme mettono a disposizione per manipolare. Non è direttamente Facebook a manipolare: siamo persone che non si parlano più e che guardano solo le cose cha appaiono così. Manca il senso critico e senza interazione, differenza di pensiero, si riduce tutto in un unico modello culturale. Se non riusciamo a differenziarci non possiamo interagire, perché l’interazione è diversità. Il confronto è sulle differenze, ora al contrario si sviluppa persuasione e assenza di interazioni. La società regredisce e va verso il caos, coinvolgendo la salute mentale, il controllo elettorale.

La domanda più allarmistica è: la tecnologia è minaccia e sarà la rovina del mondo e la distruzione della civiltà?

La tecnologia è anche magia, invece il marcio è nel sistema capitalistico improntato sul profitto. La mancanza di regolamentazione permette al digitale di fare quello che vuole, perché diritti e privilegi delle società prevalgono sulle persone, sulla libertà portandole a conseguenze distruttive. È l’economia che gira così e lascia un mondo peggiore alle nuove generazioni che non hanno più obiettivi e valori.

Ma come cambiare il mondo della tecnologia?

Sono gli esseri umani che devono cambiare, perché hanno costruito questo mondo ed ora hanno la possibilità di cambiarlo. Abbandonare il modello di business per trovare una società sana: sono le persone critiche che devono portare al cambiamento.

I realizzatori del film pur chiedendosi se ci riusciremo, sono convinti che: “Dobbiamo farlo! Dobbiamo aprire un dialogo ed individuare una soluzione”.

Le strade praticabili sono: a) una forte pressione dell’opinione pubblica; b) la verifica delle fonti, con informazioni diverse e diversi punti di vista, per scegliere liberamente; c) evitare l’utilizzo ossessivo dei dispositivi; d) convincere le persone ad essere libere dai motori della manipolazione.

The social dilemma si configura quindi come un interessante documentario che aiuta lo spettatore ad avviare una riflessione personale sull’utilizzo eccessivo dei social network, da consigliare soprattutto agli adolescenti, ovvero alla fascia statisticamente più a rischio per quanto riguarda il tema della dipendenza da smartphone e delle implicazioni psicologiche e sociali che ne derivano.

Del resto, anche il libro di Andrea Colamedici e Maura Gancitano “L’alba dei nuovi dei”, sembra offrire una speranza: se l’umanità ha vissuto nell’antichità momenti simili al nostro, con la nascita della Filosofia e della scrittura, gli esseri umani, attraverso l’affermarsi della coscienza e della razionalità, cambiarono per sempre la loro esistenza. E ciò anche oggi può accadere a patto che lo spazio fisico e il mondo virtuale siano inclusivi e si giunga ad una vita filosofica, direi critica, diffusa, continua e diversificata, per riuscire a trovare la nascita dell’alba dalla notte in cui siamo ancora immersi.