Giffoni, Mario Martone ed Ermal Meta

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C’era una volta un bambino che amava raccontare storie e c’è ancora. Si chiama Mario Martone, ha sessantatrè anni, è un regista e sceneggiatore partenopeo pluripremiato. Un maestro di cinema. C’era una volta quel bambino, che amava raccontare storie al fratello più piccolo utilizzando soldatini e fantasia sopra sedie capovolte, e c’è ancora. Esiste nello sguardo, nella curiosità, nello spirito. Nel cuore. Perché come lui stesso spiega a #Giffoni53 “se riesci a restare bambino continuerai a fare questo lavoro, a restarci dentro felice al di là della carriera e dei guadagni”. La Sala Verde della Multimedia Valley è gremita in ogni ordine di posto. I ragazzi del workshop+18 sono seduti sulle soffici poltrone di pelle in silenzio d’ammirazione. Una lunga fila di giffoner in maglietta arancione  occupa la scalinata laterale per rivolgere domande al prestigioso ospite. Che subito, in apertura, rende omaggio alla creatura di Claudio Gubitosi:Sono felice di essere qui, di essere tornato a Giffoni dopo quasi trent’anni. Era il 1994. Avevo fatto il mio secondo film. Allora il festival era diverso ma già molto bello. È cresciuto davvero tanto e bene”. Martone ha una conversazione raffinata che incanta. Lo sguardo fisso davanti a sé, sui suoi  interlocutori. I piedi piantati a terra,  profonde e solide radici che ne sorreggono l’importante profilo curricolare: tre David di Donatello e tre Nastri d’Argento, più diciotto nomination per entrambi. Solo per citare i titoli maggiori. “Non ho fatto scuole di teatro e cinema. Sono un autodidatta” precisa il professionista napoletano. “La mia è stata una formazione orizzontale, sul campo. Un film si compone di tante cose e ogni singola cosa tiene insieme tutto come una rilegatura. Quando sei parte di un unico organismo fai davvero il cinema”. Per lui è sempre stato così. Colpo di lancette, all’indietro. Rewind: “A diciassette anni ho mosso i primi passi a Spazio libero, là dove artisticamente potevi fare quello che volevi. È lì che ho conosciuto Tony Servillo” racconta Martone. “Facevo delle istallazioni arrangiandomi con creatività. A Salerno un intellettuale e docente universitario, Rino Mele, fu il primo critico a notarmi. Grazie a lui ho avuto la possibilità di realizzare delle performance in una galleria d’arte. Mi diceva una cosa che ancora oggi ricordo e utilizzo con i miei collaboratori: cerchiamo di fare qualcosa tra il dignitoso e il dignitoso”. La passione che spinge, innata, istintiva, verso una direzione ben precisa. Impossibile da resistere: “Avevo senza dubbio un’attitudine a scrivere e raccontare storie” sottolinea. “Tutti i lavori, anche quelli più tecnici, ne hanno bisogno. Nella mia vita sono stati però fondamentali i compagni di strada. Non ho mai avuto un maestro-padre ma tanti maestri-fratelli. Il gruppo per me è come una famiglia… aperta. Ho mantenuto rapporti saldi dove c’era senso di crescita. Allo stesso tempo sono stato sempre aperto all’incontro nuovo”. Martone approfondisce il tema dell’ispirazione: “Mi arriva dai romanzi letti, da qualcosa che osservo oppure ascolto. In quel momento mi si accende una visione. È come se vedessi già l’impronta del film. Per il mio primo lavoro sul set, Morte di un matematico napoletano, è andata esattamente così: ho preso ispirazione dalle storie delle persone su questo personaggio leggendario”. A Napoli, sua città natale, ha girato buona parte dei suoi film. “Mi interessa raccontare l’umano non il napoletano. Ma l’umano che conosco meglio è proprio il napoletano” annota. “Napoli è una città che conosce bene l’Incanto e il disincanto. È speciale proprio per questa sua duplicità“. All’ombra del Vesuvio Martone ha realizzato un meraviglioso documentario su Troisi: “Con Massimo abbiamo avuto un rapporto di simpatia e stima reciproche.  Aleggiava tra di noi il desiderio di fare un film insieme. Era nell’aria. Ti faceva ridere e commuovere allo stesso tempo. Un artista straordinario, eterno. Entrambi possiamo essere definiti dei figli di Napoli in maniera totale ma, anche, insofferenti ai luoghi comuni che l’attraversano”. Passato e futuro si incontrano nelle parole del regista partenopeo quando l’accento finisce sui giovani: “Sono loro i veri protagonisti di questo mondo radicalmente cambiato dalla rivoluzione digitale. Abitano questo mondo e sono chiamati a costruirne uno nuovo. Per me, uomo spaccato in due per ragioni di anagrafe tra dimensione analogica e digitale, il rapporto con i giovani è necessario e prezioso”. Dai ragazzi al progresso tecnologico il passaggio è di default. E tira dentro l’intelligenza artificiale sfiorando (anche) lo sciopero di Hollywood: “Non la demonizzo sul piano personale nè artistico” specifica Martone. “Il mio amico Bernardo Bertolucci sosteneva che non bisogna avere paura dei cambiamenti ma la volontà di approfondirli per comprendere come relazionarsi con le trasformazioni. L’intelligenza artificiale può essere usata male come molto bene. Dipende tutto, e solo, dall’uomo”. 

Non solo musica, ma anche tanti spunti di riflessione sull’attualità e sulla politica, sui giovani e la lotta per un futuro tutto da disegnare giocando con le mille sfumature dell’ignoto. La masterclass che Ermal Meta ha tenuto all’interno della Sala Blu – Impatto Giovani (che s’è aperta con un regalo dei ragazzi all’artista, che hanno cantato con lui un piccolo estratto di ‘Piccola anima’ alla chitarra) ha avuto la dote di catturare l’attenzione di tutti i giffoner presenti, in rigoroso silenzio ad ascoltare le parole di uno dei cantautori più rappresentativi della sua generazione. Se è vero che “Chi scrive è una porta, che si lascia attraversare dalle idee”, come detto dall’artista, nella cittadella del cinema, in questo pomeriggio, tantissime riflessioni si sono fatte largo oltrepassando la soglia.

Ed è proprio attraverso questa porta “che a volte può chiudersi, fino a quando non arriva un’idea talmente forte da sfondarla” che Ermal Meta parla del periodo di crisi che l’ha portato a non ‘partorire’ più musica. Al posto delle note, l’artista s’è però cimentato nella scrittura del suo primo romanzo, ‘Domani e per sempre’, edito da La Nave di Teseo. “Sono molto critico con me stesso. Quando non sento la forte pulsione che mi spinge a scrivere tendo a rimanere in silenzio. Sentivo comunque l’esigenza di continuare a creare, ormai non so fare altro. Nel 2020 ho così cominciato a scrivere questo romanzo, facilitato dal lockdown, in cui la musica s’è fermata per tutti”.

Attraverso il racconto che vede in qualità di protagonista Kajan, piccolo talento del pianoforte, nato durante la Seconda Guerra Mondiale, Ermal apre le finestre su un pezzo di storia del suo paese d’origine, l’Albania, a cui da sempre è profondamente legato.

Tra le riflessioni più pure e profonde condivise dal cantautore con i giffoner, anche quella riguardante il concetto di fallibilità: “Dopo tutti questi anni ho sempre paura di fallire, ma è umano. Quando ho iniziato a scrivere le prime canzoni le facevo ascoltare ai miei amici ma nessuno le comprendeva. Da parte mia c’era la paura di mettermi a nudo e quindi cercavo di nascondermi nei testi, che erano incomprensibili. Poi ho iniziato ad aprirmi e a dire la verità, ed è questa che cattura le persone, sempre”.

Incalzato da una giffoner sulla musica intesa come volano di messaggi nella società di oggi, Ermal Meta ha condiviso un interessante viaggio nel corso delle epoche, dagli anni ’50 ad oggi, ognuna caratterizzata da una corrente musicale diversa che ha saputo raccontare la realtà dei fatti che le persone vivevano e ritrovavano in ogni cosa: “Dal 2000 abbiamo smesso di provare a cambiare la società. Ora ci limitiamo a coltivare il nostro giardino. La musica oggi non può sostenere un’idea sociale, perché è proprio questa che non c’è”.

Da quella “delusione terribile” che rappresentarono le accuse di plagio a quel Festival di Sanremo 2018, in cui vinse insieme a Fabrizio Moro con ‘Non mi avete fatto niente’, fino ad arrivare al futuro, oggi compromesso, che i giovani cercano di costruire: “Non fatevi fregare dall’infelicità degli altri. Non fatevi fregare dagli adulti che dicono che questa generazione non vale quanto quella di allora, perché loro non si trovavano davanti ad un futuro compromesso. Siete voi che non avete un orizzonte davanti e dovete costruirlo da soli. Avete più coraggio voi dei giovani di quarant’anni fa”.