Alfred rimase di sasso. Aveva sperato di provocare in Emily una gioia incontenibile ed invece lei se ne restava lì, inerte, quasi imbronciata…
«Emily, cos’è questo tuo atteggiamento? Io ho cinquantadue anni, eppure oggi scopro che sono innamorato come un ragazzino. Voglio un figlio, Emily; un figlio mio e tuo! Per lasciargli il mio “impero economico”, come tu lo chiami… Non mi aspettavo da te questa freddezza».
Emily protese il bellissimo volto, velato da un malinconico stupore, e rispose:
«Alfred, io non ti potrò dare mai un figlio». E scoppiò in pianto; un pianto intenso e rapido dal quale subito si riprese. Disse, quindi, con calma controllata:
«Alcuni anni fa fui operata di tumore all’utero. Me la sono cavata, ma Dio mi ha punita lo stesso togliendomi la possibilità di un figlio mio… ».
«Che c’entra Dio, adesso?» — rispose Alfred con voce incolore. La sorpresa aveva preso il posto dell’ira, che in lui generalmente esplodeva quando si vedeva contrariato.
«Bimba mia, perché non me lo hai mai detto» — disse Alfred, con infinita tenerezza. La prese tra le braccia e la coccolò come una bambina. Poi cominciò a baciarla sui neri luminosi capelli, sulle braccia sode d’un incarnato di perla, sulla bocca schiusa e tremante: mille e mille baci non riuscivano a farlo pago di quell’amarezza che aveva sentito in Emily. Alla fine, svuotata la sua eccitazione nervosa, disse, guardandola con adorazione: «Ci sposeremo lo stesso! Sarai tu ad ereditare tutti i miei beni». Ma Emily testardamente scuoteva la bella testa in senso negativo: «Non voglio Alfred. Ho giurato a me stessa che non mi sposerò». Allora la furia di Alfred si scatenò paurosamente: dentro di lui bruciavano ferite troppo forti per poterle addolcire. Andò in escandescenza, mostrando ad Emily uno spettacolo che la disorientò. Fuor di sé Alfred gridava: «Sei un’ingrata e una sgualdrina; non ti manca soltanto l’utero; ti hanno strappato il cuore. Ha ragione Rosario che sei una statua di ghiaccio, indifferente, cattiva… Ma che pensi di te, del tuo futuro? Quale sarà il tuo destino senza di me? Non sai che solo aggrappata a me puoi essere qualcuno che conta? La signora Stowe! Grazie, ma rifiuto… Sono soltanto una pulce, ma me ne sto a saziarmi con la gocciolina di sangue che riesco a strapparti. Un manto da regina? No! Ma che hai dentro ch’io non riesca a capire? Ami un altro uomo; di’ ami un altro uomo?».
Emily non si sentì disgustata dalle sue parole, da quelle offese dettate da un’umiliazione che egli non aveva certo mai provato. Infine ella gli voleva bene e gli era tanto grata!
Lo abbracciò improvvisamente, tenendogli ferme le braccia, divenute ormai mansuete: «Stupidone! Non vedi che ti voglio bene? Come ti stimo e ti ammiro? Ho giurato a me stessa di non volere più soffrire. Ho già troppo sofferto; mi vendico contro il mio stesso destino che mi ha resa una donna sterile. Non potrò mai amarti come tu vuoi, perché non potrò mai darti un figlio. Avevo giurato anche di non dire a nessuno quel che ho patito. Non voglio essere considerata una donna a metà! A te, invece l’ho detto; solo a te, capisci?» — disse con voce di pianto.
Alfred si ricompose: gli parve di capire quanto grande fosse stata la tragedia che aveva devastato l’animo di Emily. L’abbracciò con impeto e disse:
«Non parliamo più delle tue sofferenze. Se sei stata sincera, sarai lo stesso mia moglie. Ora pensiamo a dimenticare. Amiamoci con animo nuovo; nessuno saprà del tuo segreto. Il male che hai patito è anche mio; non ci sarà niente che ci dividerà, finché vivrò e tu mi vorrai.
Dopo Natale, andrò in America, presso la mia famiglia. Pensa, Emily: una enorme famiglia costituita tutta di nipoti. Ci amiamo molto. Un giorno li conoscerai. Essi mi richiamano in America per la sistemazione di alcuni documenti, relativi a scadenze di proprietà.
E’ necessario che vada, ma tornerò al più presto e ci sposeremo, in Italia o in America, dove a te fa piacere».
«Voglio sposarmi a Napoli, nella Chiesa del Carmine!» — disse Emily, commossa: lì si sarebbe dovuta sposare tanti anni prima con Luigi! Trascorsero quel giorno di vacanza con l’animo finalmente sgombro da ogni angustia. Alfred, in cambio dell’amore di Emily, rinunciava all’idea di un figlio. Del resto egli voleva un figlio che fosse di Emily; l’idea di un altro figlio, da qualunque parte venisse, lo lasciava indifferente.
Passarono la notte felicemente in una ridente località della costa sicula orientale; l’indomani dormirono fino a tardi. Veramente Alfred si alzò più di una volta, ma vedendo Emily ancora sprofondata nel sonno, non volle svegliarla e decise di fare ritorno in albergo a Messina, nel pomeriggio.
Rientrando nella hall, vi trovarono raccolti tutti gli attori che, mentre attendevano il suo ritorno, insieme con altri forestieri, ascoltavano, da una radio a volume spiegato, le ultime notizie strategiche di Mussolini, che con grande diplomazia, faceva tesoro di tutti gli stratagemmi e pretesti che potessero consentirgli un intervento armato in Etiopia, senza destare reazioni pericolose da parte delle nazioni europee. Quella sera, del cinque dicembre 1934, si commentava lo scontro avvenuto tra la guarnigione italo-somala, attestata nella località di Ual Ual, con truppe etiopiche.
«E’ chiaro che il Duce vuole arrivare alla guerra etiopica per mantenere le promesse fatte agli Italiani di un posto al sole, di un impero coloniale…, e quale se non quello etiopico?» — disse con enfasi Giruzzi Lando. Fecero eco gli altri, ciascuno secondo il proprio punto di vista.
«Arriverà dove vorrà» — sostenne un signore molto elegante, che era sembrato assorto fino a quel momento, in profonde riflessioni.
Piano piano il numero degli ascoltatori si ridusse, finché rimase Alfred circondato dai suoi.
Il grande regista, conoscitore profondo dell’animo umano e soprattutto del comportamento degli uomini di potere, disse inaspettatamente:
«Questo Duce mi sembra un vulcano che, tra tanti piccoli risvegli, ne prepara uno colossale. Ha in sé qualcosa che repelle ed attrae, nello stesso tempo, un fascino travolgente anche se cruento. Del resto sono i popoli latini che generano capi forti, coraggiosi o forse incoscienti, capaci di trascinare i popoli al delirio.
Sono i popoli delle grandi epopee: c’è stata quella napoleonica; c’è stata quella garibaldina ed ora si sta vivendo quella fascista. Sono avvenimenti più o meno lunghi della storia, ma destinati a finire!».
«E lo dici proprio tu, Stowe!» — disse ridendo Rosario.
«Non sei un duce anche tu? Quando mai chiedi il nostro parere? E, guerra o non guerra, ci fai lottare a tuo piacimento nell’anfiteatro, con finte e vere belve e neanche perché quelle scene ti servono subito. Mentre fai un film, ci costringi a procurarti il materiale per un altro film, che verrà o non verrà mai. Sei grande nel farci lodi e rimproveri giusti e, soprattutto, nel pagarci lautamente ogni piccola fatica. Sei intelligente, infaticabile, ma sei anche un despota e spesso ci tratti come capre o buoi, confondendo la nostra coscienza col fascino sempre appetitoso dei dollari!».
«Questo pensi, dunque, di me? Mascalzone, figlio di… Eri una formica quando ti ho conosciuto, figlio della strada, ed ora che ho fatto di te un elefante mi offendi con la tua proboscide!» .
Le parole di Alfred erano pesanti, ma il tono della voce era allegro; sicché tutti scoppiarono a ridere, mentre Alfred ancora minacciava Rosario scherzosamente, con la mano alzata.
Poi lo prese sottobraccio, dicendo:
«L’importante è che tu sia venuto in Italia a darmi una mano in questo film, col quale devo fare la fortuna di Emily».
«Sei proprio irriducibile e testardo, ma l’avrai vinta, per opera mia».
«Non c’è niente da fare… sei quel fetente che presi per strada!». Stettero un po’ in silenzio, ancora sottobraccio, poi Rosario parlò come a se stesso:
«Se mi riuscisse di convincerla!…». Stowe capì subito che si riferiva a Valeria e disse ironico:
«Oh, oh! quella è un pesce morto che si fa caricare da chiunque… Però è una brava ragazza ed Emily non te la cederebbe mai».
Rosario restò meditabondo: com’era lontano dalla verità Stowe. E come egli lo vedeva piccolo, adesso.
Ripensò a Valeria con uno struggimento mai provato, mentre un briciolo di speranza s’insinuava ancora nel suo animo.
Finalmente stanche della serata, Emily e Valeria si ritirarono nel loro appartamento; si trattennero nel soggiorno per scambiare qualche parola. Stavano già dandosi la buona notte, quando Emily un po’ imbarazzata, disse: «Valeria, ho dimenticato di dirti una cosa, benché ogni giorno mi proponessi di farlo… Abbiamo avuto giornate così piene ultimamente!».
«Di che si tratta?» — chiese Valeria, col cuore in gola.
«Non temere, non è niente! Da molti giorni ho scritto una lettera a mia madre, pregandola di darci notizie della tua famiglia. E non fare quella faccia! mia madre è una donna intelligente. L’ho informata di tutta la situazione e l’ho pregata di fare le cose per bene. Con grande cautela e segretezza. Non ti agitare. Finché tu non vorrai la tua famiglia non saprà nulla di te».
«Ma perché lo hai fatto?» — chiese Valeria quasi imbronciata.
«Perché ti vedo sempre con tanto di muso. Ho capito che pensi sempre a loro, così ho pensato di farti avere qualche notizia.
«Siamo a dicembre, verrà Natale… Può darsi che avremo buone notizie, così faremo un buon Natale».
«Ti ringrazio» — rispose con tono addolorato Valeria — «Speriamo che arrivi presto la risposta. Non te ne volevo parlare, ma sono stata molto in ansia per un sogno che ho fatto l’altra notte». «I sogni vanno e vengono; sono i segni del nostro umore. Almeno così mi diceva la nonna. Ma, su, raccontamelo, ti farà bene, anche solo per sfogarti».
«Oh, si, certo per sfogarmi con un’ignorante che presume di mettere tutto a posto coi ricordi della nonna!» — pensava Valeria — «Come potrei farle capire chi erano Freud e Jung? Che sa lei delle grandi teorie scientifiche dei sogni presso tutte le civiltà della terra?
E’ pur vero che il sogno è sempre qualcosa di soggettivo, incomunicabile nella sua ultima essenza. Ciò non ha impedito agli studiosi di tutti i tempi di cimentarsi nell’arduo problema scientifico della interpretazione dei sogni, della loro definizione e catalogazione. Adesso dirò ad Emily il pensiero presocratico che accede alla soluzione del problema per due strade: il sogno come metafora della realtà; il sogno come mezzo per giungere alla verità!».
«Senti, Emily» — disse a voce alta, come provasse gusto a sondare la ignoranza totale dell’amica «Hai sentito mai parlare di Socrate, Platone, Eraclito, Democrito, Cartesio, Freud, Jung?». «Chi sono mai costoro? Per ascoltare il tuo sogno devo sapere tutto di costoro?» — chiese molto ironica Emily — «O essi sono i protagonisti dei tuoi sogni? Che facevano?».
Valeria si pentì di aver parlato così e cercò di accomodare un poco le cose, perché il viso di Emily non prometteva niente di buono, com’ella avesse capito che Valeria voleva prenderla un po’ in giro. «Emily, quelli che ho nominato sono solo alcuni dei moltissimi studiosi dei sogni. Tutti i popoli del mondo hanno avuto i loro interpreti. Pensa che esistono trattati che si chiamano “Le chiavi dei sogni”, come “La chiave dei sogni” della Dinastia Egiziana; quella indiana dell’Atharva Veda, quella della civiltà neo-babilonese… Perfino le grandi religioni credono nel significato dei sogni: l’Islam, l’antica Grecia, la Bibbia. Qui è confermato chiaramente che il profeta è il mediatore dei sogni».
«Perciò sei sempre triste, perché tu sai tante cose! A volte sarebbe meglio non sapere niente» — disse Emily con la sua filosofia spicciola.
«Ma, adesso raccontami il sogno» — aggiunse con tono perentorio.
«Emily, mi devi scusare se ti ho annoiata. E’ da tre giorni che tento di darmi una spiegazione. Temo che mio padre non stia bene. Sono arrivata a questa conclusione, seguendo un certo criterio di interpretazione scientifica, sulle orme dei miei modesti studi. Sto cercando di tirar fuori dal mio inconscio la verità sulle mie paure».
«Dio mio, che cosa difficile è mai un sogno ed io, beata me, non lo sapevo. Adesso vuoi raccontare o me ne vado?».
«Mi trovavo sola e smarrita…» — cominciò Valeria.
«In una foresta…» — la canzonò Emily.
«Non fare la stupida, altrimenti non ti racconto più niente» — la rimbeccò seccata Valeria e disse tra sé: «Che razza di bestia è mai questa ragazza!».
Poi riprese a parlare, con lo sguardo intento a riportare alla mente le visioni avute in sogno. «Mi pareva di stare in un luogo molto spazioso: una terra battuta,
chiara, senza case. Lontano, disseminati un po’ da per tutto erano dei muretti, differentemente alti, ma non più di due metri. Io non sapevo quale direzione prendere e chiamavo mio padre, per farmi aiutare, perché da lui ero stata condotta colà. Solo che adesso non vedevo dove fosse. All’improvviso è sorto un vento, che all’inizio era leggero e basso, sì da ammucchiare molta polvere per terra. Poi ho cominciato a vedere volare delle foglie gialle, ma non riuscivo a vedere gli alberi. Mi giravo da tutte le direzioni e non vedevo che spazi immensi ed incolti, una landa di cemento, insomma. Intanto la pioggia di foglie infittiva ed il vento diventava impetuoso e mi spingeva, mi spingeva in una sola direzione. Alla fine mi sono trovata presso il muro più alto e sapevo che dovevo scavalcano, ma non c’era anima viva che mi aiutasse…».
(Continua…)