CAPITOLO II
Valeria aveva smesso di piangere e se ne stava raccolta sulla sua poltroncina, con la testa appoggiata allo schienale, il busto adagiato, ma eretto, gli occhi chiusi, le mani in grembo. Il ritmico dondolìo del treno le procurava una sonnolenza, alla quale si sottometteva con piacere, in un abbandono quasi totale della mente e del corpo. Era in un trasognato dormiveglia, quando il tocco leggero di una mano la fece sussultare ed aprire gli occhi.
Vide una bella bambina sui cinque anni, ben vestita, con un nastro azzurro nei capelli ricciuti, che li teneva lontani dal viso, di un ovale perfetto, se le guance non fossero state un po’ piene, proprio di fanciulla.
Istintivamente sorrise alla bimba, la quale, volgendosi ad una giovane donna molto elegante, che sedeva più indietro, esclamò esultante: «Si è svegliata! Non piange più!»
La donna si alzò sveltamente dal suo posto e si avvicinò a Valeria per scusarsi della molestia arrecata dalla bambina.
Valeria la guardò con attenzione: era una donna molto bella, di proporzioni esatte, slanciata. Indossava dei pantaloni alla zuava ed una camicetta, che scopriva generosamente il seno bellissimo. Il viso non aveva lineamenti molto regolari, ma nell’insieme esprimeva una bellezza tipica ed una grande forza di carattere. Il sorriso splendeva in sintonia con lo sguardo di due occhi grandi, di colore grigio-verde, in contrasto coi capelli corvini.
«E’ il ritratto della bellezza e della felicità» — pensò Valeria, mentre con gentilezza invitava la strana ospite a sedere di fronte a lei, per far contenta la bimba.
«Scendo a Firenze» — disse, tanto per dire qualcosa.
«Abita là?» — chiese l’altra.
«No, devo prendere la coincidenza per Genova…»
«Oh! Anch’io scendo a Firenze. Ma, perché non ci presentiamo?»
Al cenno di assenso di Valeria, disse per prima:
«Il mio vero nome è Emilia Cesarini, ma ho dovuto assumere quello di Emily Ryn, impostomi dal regista col quale dovrò girare l’ultima parte, cioè la tragedia finale di un film, iniziato a Torino.»
«A Torino? In Piemonte? Allora dovrà andare là?»
«Niente affatto! Per volontà di Stowe si va in Sicilia, dove si gireranno le ultime scene, le più drammatiche, che porteranno alla morte due infelici amanti, il cui ultimo rifugio sarà il Palazzo dei nobili De Stefani, a Taormina».
«Che intreccio!» — eclamò Valeria.
«E questo cos’é? Dovrebbe vedere il resto. Adesso torno da Napoli, dove sono stata a salutare i miei, durante una pausa di lavoro. A Firenze mi incontrerò col regista Alfred Stowe e con la troupe al completo, per ripartire quasi subito per Messina, dove ci sistemeremo negli alberghi, perché la vicenda si sposta in varie città. A Firenze ho una sorella… Le consegnerò la bambina e via!»
«Così lei affiderà la bambina alla zia e partirà per la Sicilia?»
«Ma no! Rosetta non è mia figlia; magari lo fosse! E’ un amore di bimba. Passando per Firenze, la prelevai, perché la nonna moriva dal desiderio di vederla. Ora la riporto alla madre.»
«Ah, capisco… Dovete volervi molto bene voi in famiglia?» — disse sovrapensiero Valeria.
«Oh si! Angela ed io ci vogliamo molto bene e siamo molto legate ai genitori» — rispose Emily molto espansiva,.
«E il suo nome?» — chiese poi.
«Valeria Bonatti, studentessa universitaria, facoltà di medicina»
— rispose Valeria con voce spenta. In quel momento ricordava il viso incolore ed ostile di sua madre, mentre le comunicava le decisioni del padre, e rivide quello duro e indifferente della sorella.
Olga era stata sempre un po’ invidiosa di lei. Non la considerava superiore a lei per bellezza, intelligenza, capacità, ma solo sfacciatamente fortunata. Non aveva mai accettato, dentro di sé, che Valeria, più giovane di lei, si fosse fidanzata con Marco, di buona famiglia, che univa in sé molte pregevoli qualità fisiche e morali. Egli era medico, annoverato fra i più accesi studiosi di medicina moderna, cioè incline ad esperienze radiologiche e radioattive. Faceva meraviglia il fatto che un giovane così bello, che sembrava nato per scegliersi una vita facile e piacevole, si dedicasse, invece, con tanto scrupolo ed attaccamento al suo lavoro di medico e ai suoi studi di scienziato.
Olga non nascondeva la sua ammirazione per Marco, che la portava spesso ad essere sgarbata con Valeria. Spontaneamente rinunciava a seguire, col suo Simone, i loro amici, perché si sentiva sempre in secondo piano vicino alla sorella, che primeggiava per spirito e grazia.
Simone non era quello che si dice un bell’uomo, ma era sistemato abbastanza bene; laureato in chimica, era un lavoratore serio ed impegnato ed apparteneva ad una delle famiglie «ben viste» di Napoli. Una famiglia di integerrimi costumi, con un canonico in casa, fratello della madre, legata ai pregiudizi in modo ossessivo. Valeria si riscosse dai suoi pensieri, sentendo la voce armoniosa di Emily:
«Scusi, se l’ho importunata! Non mi dica altro, se non vuole; ma voglia accettare un caffè: la metterà su».
Il treno si era fermato alla stazione di Arezzo e dal bar della ferrovia venivano camerieri con vassoi colmi di bevande, rustici e dolciumi, invitando i passeggeri a ristorarsi. Molti si sporgevano dai finestrini; qualcuno addirittura scendeva sull’impiantito per acquistare qualcosa. Valeria accettò con piacere il caffè che Emily le porgeva. Poi si affacciò dal finestrino per dare uno sguardo fuori e vide, laggiù, presso una carrozza, dove fin dall’inizio aveva letto «Riservato» un folto stuolo di «camicie nere», che circondava, come guardia del corpo, un uomo in divisa fascista, enormemente decorato, con medaglie e fregi in oro. Ricadde pesantemente nei suoi pensieri:
«Ecco perché il treno si è fermato così a lungo… Doveva salire il gerarca! I Fascisti! Sono loro che hanno promosso queste «missioni specializzate». Essi mi hanno tolto Marco; a loro non si può dire di no! Promettono mari e monti a chi ubbidisce… In Marco hanno trovato l’elemento giusto! Che non avrebbe fatto per elevare il prestigio della sua professione e i destini della patria fascista! Certo una cosa essi hanno saputo fare… hanno inculcato l’entusiasmo nel cuore della gente ingenua; tutti si esaltano perché la misera Italia va incontro ad un impero… l’impero coloniale!». Ricordò una canzoncina che il padre canticchiava quando era occupato a svolgere qualche piccolo lavoro manuale, come riordinare i libri rimossi nella grande libreria o raccogliere le carte sparse un po’ da per tutto nel vasto studio. Benché il cuore le si stringesse dolorosamente, le veniva quasi voglia di canticchiare:
«Italia, sì pezzerella / ma affront’a llate terre / sì assaie bellella!»
«Oh, papà! come farò per dimenticare che non hai voluto perdonarmi?» — concluse tra sé, mentre ritornava alla realtà con uno scossone infertole da Emily, preoccupata dello sguardo svagato ed assente di lei: «Signorina, non faccia così. Cos’ha che non risponde quando le rivolgo la parola? Si sente male o non gradisce la mia compagnia?».
«Oh! mi scusi… ero entrata in certi pensieri…».
«Perché non ci diamo il tu? — chiese Emily, alquanto incuriosita e preoccupata per gli atteggiamenti della strana ospite.
«Forse siamo della stessa età» — aggiunse.
«Ventiquattro i miei anni» — rispose Valeria.
«Ventiquattro e mezzo i miei» — disse sorridendo Emily.
Quando il treno si rimosse, le due giovani parlavano animatamente, come vecchie amiche. Emily, con la sua estrema generosa sensibilità, intuendo un forte scontento nell’animo di Valeria, le chiese a bruciapelo:
«Che ti è successo? Si vede lontano un miglio che sei infelice!» Valeria non pianse, ma non seppe trovare le parole adatte per rispondere. L’altra insisté:
«Affari di cuore? Lascia perdere… Se ne va un amore, ne vengono dieci!»
Valeria rimase scossa a quella affermazione. Poi pensò:
«E’ un’attrice; chissà quanti uomini conosce!?».
L’altra, come se avesse intuito i suoi pensieri, riprese:
«Non pensare male di me; l’ho detto per rincuorarti. Del resto questa espressione è un luogo comune. Ora sono un’attrice, ma prima di giungere a questo ho fatto la propagandista di saponette e dentifricio, poi la modella ad ore, poi la modella fissa. Finalmente ho sostenuto dei provini cinematografici, che sono andati bene, mi auguro per le mie capacità, più che per essere piaciuta al «vecchio».
Valeria sorrise e rispose:
«Tutto è meglio della vita che andrò a fare io presso un’anziana zia, bisbetica e frustrata. Sai che piacere, due disastri in uno?»
«Perché dici che sei un disastro? Sei bella e giovane… un po’ sfiorita, forse dal lungo piangere. Se ti dai un’acconciatina puoi essere meglio di me. Hai dei lineamenti bellissimi».
«Grazie, ma non ne ho voglia».
«Perché non ti confidi? Siamo ancora ad un’ora da Firenze; apriti, ti farà bene». «Vorrei tanto, ma non so da dove cominciare… I miei mi cacciano letteralmente di casa, perché sono incinta: non possono accettare questa enormità, questo scandalo. Ne soffrirebbe troppo il buon nome della famiglia e si correrebbe il rischio di mettere in crisi il matrimonio di Olga, la mia sorella maggiore».
«Ma l’uomo che… insomma è sposato?».
«Non è sposato, è… come morto» — rispose tristemente Valeria. E la ragguagliò sulle sue sventure.
«Ho pietà di te» — disse Emily «ma non perché sei incinta. Questa ritengo che sia la cosa più meravigliosa del mondo! E’ una cosa dove c’entra Dio che crea le vite. Ho pietà di te, perché tieni una madre che non è degna di chiamarsi tale ed una sorella…» — esitò, come leggendo nel futuro — «che sarà punita dal cielo! Tuo padre, poi!»
«No!» — esclamò Valeria — «Non dire questo. Essi non sono cattivi, sono sconvolti. Mio padre mi ha sempre amato moltissimo. L’ho lasciato ammalato dal dispiacere».
E non disse che non avevano voluto neanche vederla, prima di partire, temendo che sarebbe scoppiata in pianto. Allora Emily, rendendo più enigmatico il suo sguardo, assunse l’atteggiamento di chi pensi intensamente. Alla fine, prendendo una mano di Valeria nelle sue, disse con tono accorato:
«Perché non vieni con me? Dico sul serio, sai? Io guadagno bene; per i primi tempi ti potrò aiutare. Poi troveremo una sistemazione indipendente per te…».
Valeria taceva e scuoteva la testa negativamente. Emily incalzava: «Oh, non credere nella mia carità… Tu dovrai farmi da segretaria; porto così male i conti che ne avrei proprio bisogno».
Valeria rimase frastornata dalla proposta dell’amica occasionale. Per un attimo immaginò il viso atterrito di zia Gemma, non vedendola scendere dal convoglio. Poi si figurò la sorpresa e lo sdegno dei genitori, la rabbia di Olga e provò un sentimento di vendetta di cui si vergognò. Rispose pacatamente:
«Sarei proprio tentata di accettare, ma è una cosa assurda. Zia Gemma verrà alla stazione con l’autista. Mio padre sta male… Non scherzare, Emily, ti prego. Poi c’è che io dovrei continuare gli studi all’Università. Mi manca poco alla laurea: ancora un anno! Eppoi… eppoi dovrei rinunciare per sempre alla mia famiglia e non posso; non me la sento».
«Sai che ti dico? Bella famiglia la tua! Neanche una briciola di pietà per la povera figlia scivolata a terra. La consegnano alla vecchia zia e, magari, non vorranno vedere mai il suo bambino!».
«Sta’ zitta… sta’ zitta, per pietà» — gridava finalmente in pianto Valeria — «Sta’ zitta, non voglio sentirti».
Intanto il treno entrava nella stazione di Firenze. Emily prese le sue poche cose, ma, accorgendosi che l’altra aveva tre bauli, ne afferrò uno per aiutarla a scendere.
«No, che fai, Emily? Chiameremo un facchino. Sono informata che questo treno resterà mezz’ora fermo e l’altro arriverà dopo un po’. C’è tutto il tempo necessario».
Il treno si fermò con enorme stridìo; le due donne aiutarono Rosetta a scendere. Emily si guardava in giro e finalmente scorse, sotto una enorme pensilina, la sorella Angela ed il cognato Giovanni, che erano venuti per riprendersi la bambina e per salutare lei, che sarebbe ripartita con gli attori, dei quali, però non vedeva neanche l’ombra. Intanto i parenti di Emily le invitavano al bar per prendere qualcosa che le ristorasse. Valeria si sentiva imbarazzata, a causa dei tre grossi bauli che un facchino le aveva posato accanto e voleva rifiutare, ma quelli insistettero con tanta cortesia che finì di accettare.
«E la tua èquipe?» — chiese Angela ad Emily, la quale rispose:
«Credo di essere io in anticipo: dovrebbero essere tutti qua tra un quarto d’ora».
Si parlò del più e del meno, con parole di circostanza. Astutamente Emily non fece alcun altro tentativo per vincere la resistenza di Valeria, ma aveva qualche speranza a suo favore, perché la vedeva assorta e combattuta tra se stessa. Infatti Valeria pensava al padre e non riusciva a sopportare l’idea di dargli un nuovo dolore. Intanto si avvicinava, a gran passi, il regista Alfred Stowe, che vedendo Emily, all’aperto, per farsi notare, le tese le braccia da lontano e, raggiuntala, l’abbracciò fortemente alla presenza di tutti.
Furono fatte le presentazioni di rito; finalmente Alfred, rivolto ad Emily, disse: «Sei pronta, cara? Gli altri ci aspettano all’aeroporto; ho preferito così. Saluta i tuoi e andiamo…». Emily d’impulso disse a Stowe: «Portiamo anche lei?» — e fece cenno a Valeria.
Questa notò subito che Stowe aveva una personalità possente, pure non riusciva a togliere gli occhi dalla persona di Emily, mentre tendeva la mano a tutti i presenti.
(Continua…)