A questo compito eccezionale sono chiamati a rispondere i suoi epinici, ripartiti in Odi; a noi restano quelle che si sono salvate dalla rovina del tempo: 14 Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 7 Istmiche.
Sicché, fuori degli schemi di una nobiltà aristocratica, che fu la sostanza propellente della civiltà ellenica, costretta anch’essa a deteriorarsi nel tempo, se si pensi al processo di mutamento dell’ordinamento della polis, iniziato da Solone, continuato da Pisistrato, concluso dall’alcmeonide Clistene, rimane intatto lo spirito umano, operante nei secoli e nei millenni, a favore di un’infinita fioritura di eroismi e di gloria, scaturiti da una forte volontà individuale, non dalla sorte.
Scrisse W. Jager: “Sembra quasi essere una legge dello spirito che le grandi forme storiche della comunità umana, solo quando la loro vita è all’estremo, abbiano la forza di plasmare conclusivamente e movendo da un’ultima profondità di intellezione, il proprio ideale spirituale”.
Nella sua opera Pindaro esprime pienamente la concezione dell’uomo che fu propria dell’aristocrazia ellenica, fin dal suo costituirsi come gruppo dirigente del mondo greco.
Pindaro sentì, in modo inequivocabile, il nesso tra valore-gloria- immortalità, che per lui si sintetizzava pienamente nel concetto dell’eudaimonìa, cioè la felicità completa che l’uomo può conseguire sulla terra, dopo la prova ardimentosa ed aspra del superamento di se stesso, in una tensione di crescendo in cui divampa la scintilla divina che è in lui.
Questo vero filosofico-religioso ha fatto la sua storia anche lontano dagli agoni greci.
Perché quando un uomo, da qualunque landa del mondo provenga, dà tali prove di sé, ricompone nella mente degli altri gli elementi che costituiscono l’accettazione, il plauso e la credibilità di un potere ancora sconosciuto che metta le forze umane in grado di superare se stesse.
Per questa convinzione, soprattutto, oltre che per essere un nobile di origine divina, Pindaro sentì, naturalmente entro gli schemi della propria formazione umana, storica e civile, la necessità, tutta omerica, di perpetuare, coi suoi canti, la fama dei suoi contemporanei.
In questo esercizio mirabile egli rivestì quasi un abito sacerdotale di rivelazione e di profezia, mettendosi, con piena convinzione, sullo stesso piano dell’eroe glorioso in guerra, come dello sportivo che onori l’areté negli agoni.
E se Omero che “sovra gli altri com’aquila vola” ci dà, nell’ampio respiro epico della sua creazione, la fede nella inesauribile intraprendenza umana del conoscibile e dell’inconoscibile e crea il sentimento della immortalità, se Dante ci ammaestra e soggioga con la sua dottrina, che spazia nell’Universo, e ci addita la via della salvezza, se Alfieri e Foscolo ci trascinano fascinosamente attraverso i meandri di una sofferenza mentale e psichica, che va incontro alla redenzione e alla gloria, se Shakespeare, pur nell’ombrosa temperie della tragedia, ci chiarisce il concetto inequivocabile che il male è male…, con Pindaro noi entriamo in un mondo diverso, dove i motivi esistenziali, politici, etici, religiosi, si vivono come pretesti per trasfigurare la storia, la realtà e la fantasia nel mito.
(Continua…)