“Chi ottiene novella gloria ad alati ardimenti s’induce,bramando un bene che l’oro sopravanzi…”. (Pindaro, frammento).
Esaltare un bene che “sopravanzi” l’oro, oggi, è certamente un tema che corre gravissimi rischi, non ultimo quello di non essere preso in considerazione. “Mala tempora currunt”.
Perfino gli onesti, con la saggezza acquisita dalle proprie esperienze di vita, non riescono ad accettare la stupenda retorica frase che il danaro non dà la felicità. Accettiamo, però, come ameno aneddoto storico, la felicità di Diogene, limitata ad una botte e ad una lanterna! In realtà, stretti come siamo da mille interessi contingenti e pratici, che non si possono risolvere se non con danaro contante, né sollecitati da esempi di probità e di valore in nessuna classe dirigente del Paese, tanto meno nel campo agonistico, non riusciamo a provare quel nobile rincrescimento che ci elevi dalla nostra pochezza, e non resteremmo, ahimé! indifferenti, se ci piovessero addosso, improvvisamente, alcuni miliardi. Detestiamo certo chi li ha presi a detrimento dello Stato e di noi cittadini, perché i nostri sogni, esercitati all’insegna di mani pulite, non vanno al di là di fortune immaginarie e romanzesche. Ma non giovano le nostre distrazioni e divagazioni a tenerci lontani dal fascino erompente di un poeta, nobile di nascita e di sentimento, che credette nel valore della gloria e la esaltò all’infinito, tanto la sua poesia è ancora fresca ed accattivante. I versi di Pindaro ci richiamano ad un concetto di valore umano, esplicantesi in una purezza assoluta di intenti e di risultati, trascinandoci nei regni seducenti e leggendari del mito, ricreando visioni che esercitano, con il loro esempio, una fortissima attrattiva, tanto più che il poeta ne fa cornice per la presentazione e la comparazione di personaggi contemporanei, degni di fama e d’incenso, da tramandare ai posteri. La sua poesia è, dunque, generalmente corale ed i suoi Epinici sono una dimostrazione, in crescendo, delle disposizioni e delle capacità umane di eroi (guerrieri o sportivi), tesi al raggiungimento di mete supreme, quasi incredibili. Se avesse avuto un motto, questo sarebbe stato: “Onorare gli avi e cercare di eguagliarne la forza e la gloria”. Tale era infatti il principio fondamentale della morale aristocratica ellenica nel ‘500 a.C., che si accentra tutta sul concetto delI’areté, che è il mezzo consentito agli uomini per potersi elevare alla gloria. Di conseguenza l’áristos, il nobile, doveva difendere la propria nobiltà di origine ed arricchirla con atti di valore degni della stirpe divina dalla quale discendeva, ricevendo da questa un’attitudine potenziale, che, in fondo, era la nota caratteriale ed individuale della stirpe stessa, ossia l’io del ‘yévoç. Si comprende allora facilmente il significato dell’ammonimento delfico del “conosci te stesso o del riconosci in te la tua stirpe” e, quindi, del “divieni quel che sei”. Non è da credere, tuttavia, che gli dei concedessero ad un uomo o a pochi uomini il privilegio della nobiltà, perché emergessero sugli altri senza merito.
L’impegno divino, riguardo alla nobiltà dei natali degli aristocratici, si limitava esclusivamente a collaudare i meriti del capostipite, proclamandolo semidio o eroe. I discendenti dovevano adoperarsi con le loro capacità per tenere alta la fama dell’avo ed esserne degni; perché l’areté non è dono divino, ma è il seme divino che, dal cuore dell’uomo, sboccia in splendida azione, quando, senza alcuna delimitazione dì tempo, l’eroe compie il proprio superamento, nello spasimo inesausto della tensione delle proprie forze fisiche e psichiche. Il fatto, quindi, che i nobili greci credessero nell’origine divina della loro discendenza e sentissero l’esigenza di perpetuarne le regole e gli insegnamenti, in una gara di superamento costante del proprio io, non presuppone un particolaristico aiuto divino, ma piuttosto la concessione di un compito che si esplichi nel sacrificio personale, per far risplendere, in un agone o in guerra, la gloria stessa del Paese. Allora diventa portentoso il significato deIl’areté, cioé del valore nobile e magnifico.
E nessun’ombra di superbia deve sfiorare l’eroe vincitore, che altrimenti sarebbe accusato di empietà, perché la disposizione celeste all’azione non deve essere bruttata sulla terra, ma deve rimanere nel cuore dell’uomo come forza pura, agente spiritualmente in modo perfetto. In sostanza, questo concetto etico-religioso è fortemente somigliante a quello che regge la forza di molte altre civiltà del mondo, prima fra tutte, quella romana, che ci appartiene così da vicino. Ed è, altresì, il fondamento della lezione omerica, la cui indiscutibile fede nel valore umano da perpetuare nel tempo è stata la fonte alimentatrice di tutta la poesia posteriore, vivida ancora oggi, visto che ci ritroviamo a parlarne, spinti da una inspiegabile esigenza.
Ma, ritornando a Pindaro, l’intenzione era e rimane quella di ricordarlo come sommo cantore degli eroi del suo tempo, per servire un’immortalità insaziabile di glorie umane.
(Continua…)