I sei Rettori delle Università della Campania offrono (per chi ne voglia discutere) una piattaforma utile ad una campagna elettorale che rischia (suo malgrado) l’inutilità.
È ormai constatazione acquisita che, nonostante le dichiarazioni di attenzione e priorità, scarso sia stato l’impegno concreto dei recenti governi per risolvere la gravissima condizione in cui versa la scuola, l’università, la ricerca e in generale la cultura. Anche nei programmi dei partiti per la prossima legislatura questi temi appaiono più come presenze rituali che come impegno articolato e adeguato alla criticità della situazione.
Il sistema universitario è stato oggetto nell’ultimo decennio di un flusso scoordinato di provvedimenti normativi che lo ha posto in una condizione di continua instabilità. Ciò ha precluso la possibilità di programmazioni a medio temine e ha imposto una serie ininterrotta di trasformazioni e di aggiustamenti. Questi hanno causato sia costi altissimi, in termini di impegno amministrativo e burocratico dei docenti, sottratto alla loro attività didattica e di ricerca, sia disorientamento di studenti e famiglie.
Già all’inizio degli anni duemila era emersa la necessità di una razionalizzazione normativa in grado di coniugare la salvaguardia dell’autonomia degli Atenei con il controllo dell’esercizio dell’autonomia stessa, al fine di riconoscere la complessità del sistema universitario italiano ma anche di intervenire sui suoi malfunzionamenti. E in questa direzione, in passato, il sistema universitario, attraverso la CRUI aveva espresso la necessità che all’autonomia si affiancasse un sistema di valutazione efficace, trasparente e terzo.
Rispetto a queste esigenze si è dimostrato sostanzialmente inadeguato l’unico intervento di questi anni, la legge Gelmini (Legge 240/2010). Mossa da un atteggiamento punitivo nei confronti del sistema universitario statale e sull’onda di un piano di suo screditamento, funzionale al disimpegno finanziario dello Stato, la Legge Gelmini ha affrontato il rapporto tra autonomia e controllo azzerando l’autonomia e calando una camicia di forza di norme uniformi e di esasperato dettaglio sulla complessa pluralità del sistema universitario. L’università statale è stata costretta ad un costoso processo di riorganizzazione, secondo un disegno scarsamente condiviso e dall’utilità non dimostrata. Operazione dalla quale sono state tenute al riparo le università private; senza dimenticare le Università Telematiche, proliferate in Italia in questi anno, al di fuori di ogni ragionevole strategia di sistema, spesso attingendo a docenti di ruolo nella Università statali per coprire le esigenze della didattica.
Deludente è stato l’operato dell’ANVUR, il nuovo organismo, di valutazione. Lungi dal creare processi efficaci, perché trasparenti e condivisi, la sua azione si è caratterizzata per dirigismo, autoreferenzialità impermeabile a qualsiasi reale confronto, opacità, improvvisazione. Soprattutto essa ha interpretato la valutazione non come contributo al miglioramento diffuso del sistema universitario pubblico e al suo potenziamento, ma come intervento punitivo e censorio, con attribuzione di punteggi per enfatizzare eccellenze isolate in un più ampio tessuto progressivamente soffocato e distrutto (anche in questo caso tenendo al riparo dalle scelte più dirompenti le università private).
Molto critica è la situazione finanziaria del sistema universitario e della ricerca. Non per questo essa ha meritato interventi che dimostrassero la volontà concreta delle forze politiche e di governo di reagire alla difficile congiuntura economica allineando l’Italia alle scelte dei paesi più avanzati, con investimenti nell’educazione, nella ricerca, nella formazione delle nuove generazioni.
È continuata invece la politica dei tagli selvaggi che vanno ben oltre l’obiettivo dichiarato dell’eliminazione di sprechi e diseconomie e hanno posto le Università statali italiane in una condizione insostenibile. Essi compromettono ormai lo svolgimento delle funzioni basilari, impediscono non solo il potenziamento ma la conservazione stessa del patrimonio edilizio e strutturale. Essi impongono la riduzione impietosa delle azioni di sostegno al diritto allo studio, i cui costi qualcuno vorrebbe ora semplicisticamente scaricare sugli studenti stessi, con il famigerato prestito d’onore, meccanismo di dimostrata ridotta efficacia, implausibile nell’attuale situazione di disoccupazione giovanile. Essi hanno determinato il ridimensionamento dei finanziamenti destinarti alla ricerca, alla formazione di terzo livello e dei giovani ricercatori. L’idea, cara a molti, che questa drammatica contrazione del finanziamento pubblico possa e debba essere superata grazie agli interventi dei privati è illusoria, se non volutamente ingannevole. L’esperienza pluriennale insegna come scarsa sia la disponibilità ad investire nell’alta formazione e che il privato non può perciò sostituire lo Stato nell’assunzione delle responsabilità finanziarie di sistema.
Sommandosi alle severe e protratte limitazioni del turnover, la politica dei tagli sta rendendo impossibile il ricambio del corpo docente, proprio in un arco di anni in cui massicci pensionamenti stanno aprendo nelle università vuoti cui è sempre più difficile far fronte, anche per la loro sostanziale casualità. Risulta sempre più inaccettabile che il governo centrale reagisca a questa situazione solo auspicando e imponendo la chiusura di corsi di studio e di sedi universitarie. In assenza di chiari strumenti di razionalizzazione, questa politica non può non apparire come un piano per portare al collasso e allo smantellamento il sistema dell’università statale.
Bloccare il ricambio del corpo docente significa chiudere ogni futuro alle nuove generazioni di intelligenze che l’università italiana, pur con le sue enormi difficoltà, riesce ancora a formare e costringerle alla fuga, soprattutto se non operano in quei pochi settori di ricerca applicata, che una visione assai miope delle potenzialità e delle prospettive culturali del Paese reputa economicamente giustificati.
Smantellare l’università statale significa tagliare alla radice le capacità di ricerca, innovazione e sviluppo culturale del Paese che continuano a trovare nell’Università il loro luogo elettivo. È discorso capzioso distinguere un mondo universitario da criminalizzare e una “Ricerca” da esaltare e salvaguardare a parole, salvo ridurne i finanziamenti.
Smantellare l’università statale significa disincentivare l’iscrizione dei giovani, ridurre il numero dei laureati italiani, già troppo basso rispetto ai paesi avanzati, e soprattutto chiudere l’accesso ai livelli più avanzati di formazione ai giovani provenienti dai ceti meno abbienti. Così si tradiscono i principi fondamentali della Costituzione e si cancella il ruolo di equo ascensore sociale che l’alta formazione ha finora svolto, pur con tante inadeguatezze.
Il risultato è un inaccettabile impoverimento delle risorse umane che dovrebbero garantire la rinascita del Paese, da cui non potrà che derivare un suo ulteriore allontanamento dalle nazioni avanzate. È perciò necessario un radicale mutamento di scelte politiche che preveda:
- Un adeguato piano decennale di finanziamento che consenta la ripresa del sistema e, a breve termine, l’apertura a nuove generazioni di ricercatori e il riconoscimento dell’impegno di chi già lavora nell’Università garantendo la possibilità di legittime progressioni di carriera.
- Una semplificazione normativa e l’eliminazione della gabbia costruita con la legge Gelmini, che restituisca a ciascuna università la possibilità di strutturarsi in autonomia, scegliendo le forme di organizzazione e gestione più adeguate alle proprie caratteristiche e dimensioni e al proprio contesto territoriale.
- Un sistema di controllo e di valutazione trasparente, condiviso, burocraticamente leggero e che si ponga come obiettivo lo sviluppo qualitativo dell’Università statale, non la sua penalizzazione.
- Una stabilità di politiche d’intervento che consenta al sistema di programmarsi e non lo sottoponga alla necessità di continue e contraddittorie modificazioni.
Con questo documento i firmatari intendono sensibilizzare le forze politiche che dimostrano una maggiore attenzione ai temi trattati. A tal proposito considerano fondamentale una chiara indicazione per gli elettori verso un voto utile che determini una maggioranza capace di governare il Paese.
BENCARDINO Filippo (Rettore Università degli Studi del Sannio)
MARRELLI Massimo (Rettore Università degli Studi di Napoli Federico II)
PASQUINO Raimondo (Rettore Università degli Studi di Salerno)
QUINTANO Claudio (Rettore Università degli Studi di Napoli “Parthenope”)
ROSSI Francesco (Rettore Seconda Università degli Studi di Napoli)
VIGANONI Lidia (Rettore Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)