L’estate del 1937 si preannunciava straordinariamente calda. Di Emily nessuna notizia. Valeria pensava che questo silenzio fosse dovuto al viaggio di nozze, intrapreso da John ed Emily, in crociera per il mondo. Aveva ricevuto una breve lettera piena di euforica contentezza, che comunicava a Valeria, la partenza dei genitori di Emily per gli Stati Uniti, nella prospettiva del fastoso matrimonio che si sarebbe svolto al più presto, possibilmente nell’aprile di quell’anno in corso.
Nessun’altra notizia aveva un po’, rallegrata Valeria, sempre più legata al suo lavoro in ospedale. Qui il tempo scorreva, per tutti, con ritmo particolarmente faticoso. Valeria si tuffava in esso quasi con testardaggine, partecipando attivamente ai mali degli altri, come per non pensare ai suoi. Il primario, prof. Giovannini, aveva preso a benvolerla, come fosse una figlia, e non solo perché commosso dalle vicende di lei e di Marco, ma perché la vedeva così solerte ed attenta, così piena di abnegazione per gli altri, che la sua mente non sapeva staccarsi da una riflessione:
«Lo fa per lui! Forse è un voto alla Madonna, perché ritorni lui… O forse aiuta la gente, perché anch’egli trovi aiuto».
Valeria aveva acquistato, dentro e fuori l’ospedale, una grande considerazione, da parte dei medici, dei pazienti e delle rispettive famiglie.
«Una perla d’infermiera!» — «È meglio lei che un medico!» — Queste solitamente erano le espressioni che la caratterizzavano. Ben prestò fu promossa alla direzione dell’infermeria ed alla fine divenne l’assistente più preziosa del primario, dopo il «vice». Un giorno di luglio, quando la canicola sembrava più infuocata degli altri giorni, il primario la fece venire nel suo studio e le disse con molta cordialità:
«Sieda, Valeria. Voglio informarla che abbiamo assunto un’altra infermiera; così il lavoro sarà meglio distribuito, con un po’ di respiro in più per lei. Ma che caldo, oggi; tuttavia, più tardi dovremo operare…».
«Si tratta di quell’appendicite?» — chiese Valeria per tenersi pronta. «No; asporteremo la milza al paziente 116. L’appendicite la spostiamo a domani. A proposito, anche per questo l’ho fatta chiamare. Domattina arriva il mio nuovo «vice». Lei sa che Locatelli è andato in pensione, così al suo posto arriverà il dottor Adriano Martelli: è una celebrità bolognese che rientra a Napoli, sua città natale. Scherzi a parte, dicono che è molto bravo nel lavoro e molto severo. Lei, quanto a questo, non avrà niente da temere. Mi auguro che tra di loro si stabilirà un buono accordo».
«Io sono sempre disposta all’obbedienza, professore!» — rispose prontamente Valeria. — «Quanto alla bravura del suo Aiuto, sono contenta per il buon nome dell’ospedale, ma sono certa che nessuno potrà mai superare lei!».
Valeria aveva parlato con una certa enfasi, ma senza posa alcuna, nella più schietta sincerità. Il professore, che aveva ben capito, le prese una mano e disse:
«Io divento vecchio, Valeria; prima o dopo, dovrò lasciare. E’ giusto che le redini le abbia in mano la persona adatta. Solo che… » — Ella era in attesa che il professore continuasse, invece egli si interruppe con un gesto vago della mano.
Valeria inspiegabilmente fu presa dalla curiosità e chiese: «Cos’è che la preoccupa, professore? Non vuole confidarsi con me?».
Egli la guardò negli occhi e rispose:
«Valeria, ascolti un consiglio: non gli dia corda. E’ un antifascista che non riesce a mandare giù certa politica. Da Bologna lo hanno trasferito qui i suoi superiori con uno stratagemma, per evitargli una grossa punizione. Lei neppure ama i fascisti; su questo punto potrebbe nascere un’intesa molto pericolosa. Sia prudente e lo faccia essere prudente, se le riesce. Sa come sono questi fascisti… Se si sentono accettati e soprattutto applauditi, si fanno in quattro per aiutarti… E noi alla fine siamo un ospedale che ha bisogno di tante cose… Adesso vada e si tenga pronta per l’intervento, fra due ore esatte».
Valeria uscì dallo studio un po’ intontita.
«Ma guarda la vita, a volte…» — pensava — «Io odio i fascisti; alla fine viene uno che la pensa come me e dovrò fargli la predica?». Si diresse nella sua stanzetta e si distese un poco sulla branda. I pensieri inevitabilmente tentavano di raggiungere Marco, ovunque si trovasse. Cercava di immaginare quel gran laboratorio di montagna che lo rinchiudeva, anima e corpo, dando ad esso una figurazione fisica. Talvolta entrava così ossessivamente nell’immaginario che, ad occhi aperti, vedeva Marco camminare per gli ampi anditi, o se lo immaginava fermo ed attento alla manovra di bottoni terribilmente pericolosi, oppure lo vedeva nella sua stanza a leggere, a studiare, a riposarsi. Se lo figurava anche alla mensa: doveva pur esserci una mensa! Lo seguiva costruendo, passo per passo, la sua giornata, nel disperato tentativo di fondersi con la sua sofferenza ed essergli vicina nell’unico modo che poteva.
Nei giorni che seguirono vi furono notizie di Emily ed un grosso pacco, venuto d’America per lei e Marco.
«Quanta dovizia!» — esclamò la signora Tilde, vedendo uscire dal pacco indumenti ed oggetti di grande raffinatezza. Eppoi, in un involto a parte, le grandi fotografie del matrimonio celebrato in una chiesa di campagna, alla periferia di New York, secondo il desiderio di Emily. Erano tutti presenti accanto a lei, in un gruppo di famiglia: la signora Carolina, col marito Ludovico, poi Angela, con Giovanni e Rosetta, infine tante persone sconosciute, amici e parenti di John. Emily appariva raggiante nella sua sfolgorante bellezza, fotografata oltre che con l’abito nuziale, con molti altri eccentrici vestiti. Anche John appariva radioso nel suo abito scuro.
Valeria mentalmente invocò la benedizione del cielo sopra di loro: «Signore fa’ che siano felici… sono tanto buoni!».
Anche Olga rimase stupefatta dei regali e delle fotografie, che denotavano una vita molto diversa dalla loro, fatta, cioè, di lusso e di spensieratezza. Non poté fare a meno di dire: «Accipicchia! E tu, Valeria, hai avuto il coraggio di rinunciare a tutto questo?».
La signora Tilde si risentì un poco delle parole di Olga e pregò Valeria di seguirla in camera sua. Qui, accanto ad un grande ritratto del dottore Andrea, le disse:
«Ti ringrazio, figliola di essere tornata a casa. Adesso sono proprio certa di poterti consegnare una lettera che tuo padre scrisse, come per un presentimento, pochi giorni prima di morire. Me la dette raccomandandomi di consegnartela solo nel caso che tu tornassi definitivamente a casa».
«Non me l’avresti data, allora, se io fossi tornata solo per rivederti e salutarti?».
«Appunto. Tuo padre è vissuto nella certezza che, prima o dopo, saresti tornata. Morendo ha pronunciato il tuo nome…». «Dammela subito, mamma! Dammela subito!» — disse Valeria scoppiando in singhiozzi.
La madre si diresse presso un «secretaire», ch’era il mobile preferito dal marito, per tenervi ben conservati documenti e soldi. Aprì uno dei numerosi cassetti e ne trasse una busta chiusa, che consegnò alla figlia, dicendo: «Bada, Valeria, che Olga non ne sappia nulla. E’ stata sfortunata con Simone. Tuo padre era diventato un solitario, dopo lo scatafascio del matrimonio di Olga. Ormai non gli importava più niente di niente; allontanò gli amici, le passeggiate, le serate a teatro, per cui andava matto. Non gli piaceva più niente; non desiderava più niente, eccetto che tu tornassi!
Una volta, con voce pacata, nella quale si avvertivano fuse insieme rassegnazione e speranza, mi disse:
«La nostra infelicità ce la procuriamo noi mortali con tutti i nostri pregiudizi. Dio ci manda delle lezioni di umiltà: accettiamole!».
Valeria ascoltava attenta, ma desiderava allontanarsi con la lettera e rinchiudersi in camera sua, per dare libero sfogo alla piena dei sentimenti che la invadevano. Quando, finalmente fu sola, lesse:
«Valeria, se tu dovessi tornare dopo la mia morte, saprai da questa lettera quanto grande e terribile è stato il mio rimorso per averti mandata via di casa. Non volesti raggiungere zia Gemma; non ti giudico. Ma come facesti a pensare ch’io lo avrei fatto per sempre?
Il mio orgoglio era troppo ferito ed i pregiudizi, che ci legano ad una società rimasta ferma a certi imperativi, mi spinsero ad agire in un modo che là per là, pareva che mi desse un contegno dignitoso, di cui adesso mi vergogno profondamente.
Nella vita contano gli affetti e quelli della famiglia sono sacri. Niente dovrebbe guastarli… Ma per uscire dai vicoli ciechi dei pregiudizi, delle apparenze, delle meschine deformazioni del sentimento ci vorrà, forse, una grossa guerra…».
Seguivano altre frasi piene di amarezza. Alla fine il dott. Andrea s’illudeva di poter strappare con le sue mani quella lettera, senza che Valeria la leggesse mai, per una fortunata evenienza che gli permettesse d’incontrarsi ancora con lei.
Valeria rimase turbata per molte ore, dopo la paterna lettura e quella sera prese sonno con molta fatica. Inutilmente si diceva che l’indomani avrebbe avuto una giornata dura in ospedale: la figura del padre morto, che nella lettera appariva sopraffatto dal doloroso desiderio di rivederla, la faceva soffrire in modo eccessivo.
«Papà, oh papà» — pensava — «Quanto dolore avremmo potuto risparmiarci. Come ho fatto a non credere più nel tuo affetto? Quanto t’avrò deluso!».
Poi guardò Marco che dormiva placido accanto a lei e provò tanta tenerezza che abbozzò un sorriso.
L’indomani veramente in ospedale fu una giornata pesante, per un caso di chirurgia difficile, che tenne impegnata l’équipe medica, per alcune ore, nel tentativo di sottrarre alla morte un giovane uomo ferito assai gravemente in un incidente stradale.
Dopo una tensione portata all’estremo delle forze umane, il professore Giovannini ed il suo assistente, dott. Adriano Martelli, si ritrassero disorientati e sconfitti.
«Stavamo proprio per farcela; se non fosse sopravvenuto il collasso circolatorio…» — disse mestamente Giovannini.
Nello studio di quest’ultimo, si incontrarono, più tardi, Valeria e Adriano. Si osservarono reciprocamente, forse mostrando sul viso la medesima espressione di calcolata indifferenza. Tuttavia Valeria notò ch’egli aveva lineamenti marcati ed armoniosi, illuminati da uno sguardo gelido, quasi metallico, che quando si posava su qualcuno gli dava la netta sensazione di scrutarlo dentro.
Ebbe subito l’impressione che fosse molto esperto nel suo lavoro, nonostante la giovane età e che non fosse affatto incline a chiacchiere e blandizie.
Poté sperimentarlo qualche giorno dopo, quand’egli riprese duramente un giovanissimo medico, che aveva commesso una distrazione. Rimasti soli, Valeria si azzardò a dire: «E’ così giovane, imparerà…».
«No, cara lei» — fu la ferma risposta — «Un medico non può permettersi di essere giovane o vecchio. Deve essere efficiente e basta! Se non fosse in grado o abbastanza valido, non sarebbe di nessuno aiuto». Valeria rimase confusa da tanta sicurezza di sé, ostentata dall’altro: ebbe un moto di contrarietà nel bel viso, che l’altro carpì a volo, perché disse:
«Non solo non l’ho convinta, l’ho spaventata addirittura. Ma lei non ha da temere niente da nessuno. L’ho osservata, sa? è perfetta… Sarebbe stata un ottimo medico».
Valeria rimase sbalordita a queste parole, come se egli avesse potuto vedere dentro di lei la prima vocazione di medico e tutti gli studi fatti all’Università!
Per un attimo fu tentata di dirgli la verità, poi si strinse nelle spalle ed uscì senza neanche ringraziare.
Nei giorni che seguirono, i rapporti furono improntati ad una riservatezza cauta, ma non priva di cortesia.
Valeria faceva del suo meglio; l’altro la osservava, le passava ordini, senza soffermarsi a far chiacchiere inutili.
Alla fine dei conti, Valeria preferiva così; almeno si viveva tranquilli, senza nuove complicazioni di amicizia o d’altro.
Anch’ella era divenuta piuttosto dura e refrattaria ai trattenimenti, coi quali spesso medici ed infermieri conciliavano qualche ora di riposo.
Tirava avanti il suo carro, carico di inespresse sensazioni e neanche fermava più tanto il pensiero su Marco. Era come se avesse esaurito, dentro di lei, ogni possibilità di vivere una vita regolata dalle umane espressioni di gioia, dolore, speranza…
Col piccolo Marco, invece, era tutt’altra cosa: nelle ore libere, accompagnata da Olga o da Nina, lo conduceva in un parco a non molta distanza da casa, per farlo incontrare con altri bimbi, coi quali egli si metteva lietamente a giocare. Spesso Valeria, vedendo che il bambino veniva su grande e robusto, somigliantissimo al padre anche nel viso, pensava amaramente:
«Che tu non l’abbia fatto apposta, Marco, a darmi questo figlio ch’è il tuo ritratto e la mia catena per tutta la vita?».
Dal canto suo, il professore Martelli esercitava la professione, con una puntigliosità ch’era forse il freno ch’egli metteva alla sua naturale esuberanza.
Oggi in lui nessuno avrebbe riconosciuto l’allegro e spigliato giovanotto, studente in Medicina.
(Continua…)