Piangeva, rideva, stringeva a sé il piccolo Marco, balbettando: «Andremo dalla nonna; ritorneremo a casa nostra…». E giù tante frasi dettate dall’emozione violentissima di veder prendere corpo una speranza ritenuta assurda! «Povera mamma, quante sofferenze… Adesso anche Olga… Mamma, ti giuro che non ti lascerò più sola!». Invano Emily la supplicava di calmarsi, di riflettere, di paragonare la vita di soggezione che ella voleva accettare a quella di libertà e di ricchezza che le offriva lei. Valeria fu irremovibile: il ritorno a casa sarebbe l’inizio di un riordinamento della propria vita e di buoni auspici per Marco junior. In due giorni preparò le sue cose e quelle del piccolo e si dispose alla partenza. John provvide a tutto: macchina ed autista.
L’addio tra le due donne, che tante ne avevano passate insieme, non fu improntato alla tragicità, ma alla ferma promessa di rivedersi. Emily rassicurò l’amica che sarebbe ritornata dopo il suo matrimonio con John, che desiderava avvenisse in America, in mezzo alla sua grande famiglia. D’altra parte Emily non pensava più di sposarsi a Napoli, dopo l’indimenticabile tragedia di Alfred. Valeria non sapeva trovare le parole giuste, adatte a ringraziare Emily per quanto aveva fatto per lei.
«Che Dio ti benedica!» — le disse salutandola — «E che ti profonda tutte le sue grazie».
Prima di partire riaprì il diario e rilesse l’ultima parte scritta per la morte del padre.
«Oggi, venti ottobre, 1936, è morto mio padre. Il cielo si è completamente chiuso sopra di me, dunque? Mi avvolge un doloroso stupore… Pure avendone visto le spoglie, sento assurdamente che non posso credere nella sua morte. Forse, se chiudo gli occhi, la sua mano mi cercherà per darmi l’ultima carezza».
Alla pagina seguente scrisse: «Oggi, dieci dicembre, ritorno a casa, ma invano vi cercherò la voce di mio padre. Ne sentirò, comunque, la presenza continua ed impalpabile; lo ritroverò in tutte le cose che amando ha dovuto lasciare.
Padre, se vivi ancora in un’altra dimensione, tu già sai quanto soffrirò, non vedendoti accanto alla mamma». Avvicinandosi a casa per le note strade di Napoli, il cuore le batteva in modo che pareva spezzarsi ad ogni momento. Bussando alla porta paterna il suo viso era inondato di lacrime… La signora Tilde aprì come se avesse aspettato questo momento. Prese tra le braccia il piccolo e lo baciò teneramente. Non abbracciò la figlia per una reciproca esitazione, che poi rese difficile ed inutile quel gesto. Le disse, però, con grande dolcezza: «Nina ti aiuterà a disfare i bauli. La tua stanza, per volontà di tuo padre è rimasta intatta. Riposati del viaggio. Domani vedremo di sistemarci per sempre».
«Oh, mamma!» — esclamò Valeria — «fammi vedere un attimo la tua camera; voglio ritrovarvi qualcosa di papà».
Nella camera matrimoniale della signora Tilde, le due donne piansero accorate e finalmente si abbracciarono, ritrovandosi a piangere lo stesso dolore, mentre il bimbo, ignaro, era già alle prese dei tanti balocchi di Valeria e di Olga, quand’erano bambine.
Rientrando, la sorella l’abbracciò con affetto che sembrava sincero; non c’era più asprezza in lei, ma una tenerezza nuova, frutto, forse, delle sue esperienze dolorose, nella ritrovata atmosfera familiare con Valeria ed il piccolo Marco.
«E’ un bimbo bellissimo!» — esclamò Olga e Valeria sorrise mestamente. Intanto Nina si affaccendava per tutta la casa; Valeria chiese: «Mamma, non la tenevate ad ore, saltuariamente?».
«Da qualche tempo la tengo a stipendio fisso… sono vecchia e sola» — rispose la madre. Valeria provò una sofferenza incontenibile, pensando al padre che se ne era andato così per tempo, pieno di acciacchi e di dispiaceri; trattenne a stento le lacrime ed esclamò: «Mamma, ti prometto che non sarai più sola!».
Passarono due settimane di vita piuttosto tranquilla; Valeria non si stancava di toccare e baciare tutte le piccole cose che erano state del padre e mostrava a suo figlio la fotografia del «nonno» con venerazione filiale. Così, mesto e tranquillo, passò anche il Natale.
La signora Tilde, da parte sua, menava una vita molto ritirata, da quando era morto il marito, nella solitudine della preghiera e di muti colloqui affettuosi con il defunto.
Un giorno, Valeria si recò col bambino dai suoceri, che l’accolsero con grandissimo affetto e commozione. Essi abbracciarono ripetute volte il piccino ed anche Valeria, come non credessero ai loro occhi e piangevano di gioia, per loro due, e di dolore, per il figlio lontano.
«Quando sapremo qualcosa di lui? Lo amerai sempre, Valeria?» — chiese la signora Amalia con voce rotta dal pianto.
Valeria cercò di consolarla e promise che sarebbe venuta spesso a trovarla col piccolo. Intanto voleva mettersi in comunicazione con l’ospedale di Marco, caso mai riuscisse ad avere qualche notizia di lui.
Nel mese di gennaio, infatti, si recò allo studio del prof. Giovannini che l’accolse con estrema cortesia, tanto ch’ella trovò il coraggio di fargli una confidenza ed una preghiera.
«Professore» — disse — «E’ tanto che desidero lavorare nell’ospedale dove lavorava lui… Vorrei conseguire un diploma di infermiera, giacché alla laurea non penso più». Il professore fu molto comprensivo e le dette dei preziosi consigli, perché seguisse un corso rapido, che, dati i suoi precedenti studi, ella avrebbe superato agevolmente.
Intanto con chiamata diretta l’assumeva subito, poi il diploma avrebbe legalizzato la sua posizione e le avrebbe permesso qualche miglioramento di qualifica e di stipendio.
Di Marco nessuna notizia. Il mistero più fitto avvolgeva la sua lontananza. Ma ella, frequentando l’ospedale, si sentiva in parte appagata, come se in quell’ambiente ed in quella atmosfera avesse ritrovato il coraggio di sperare. La sua vita continuò, dunque, tra le cure del bimbo, cui badavano la madre, Nina ed anche Olga, quando i suoi impegni di dama di carità glielo consentivano, ed il lavoro in ospedale che la tirava sempre di più.
Una sera, rientrando dall’ospedale, passando per l’anticamera, sbirciò in salotto Olga con una coppia piuttosto anziana.
L’uomo aveva un aspetto bonario ed un vocione considerevole; la donna era mingherlina, vivace ed aveva una vocetta con la quale squittiva ininterrottamente.
«Dove diavolo avrà trovato Olga questi amici?» — si chiedeva cercando di ricordarsi di tutti i suoi amici passati. Lo chiese alla madre, che in cucina stava preparando dei gelati in coppe di cristallo, benché fosse ancora maggio, che scorreva non troppo caldo, quell’anno.
«Zitta, zitta! Per carità! Lui è un fascistone; fa politica attiva; è il segretario comunale. Lei segue il marito come un’ombra, orgogliosa di lui, del Fascio, del Duce…».
«Bella roba!» — non poté fare a meno di esclamare Valeria.
La madre, alquanto risentita rispose:
«Sono nostri vicini; Olga ha conosciuto la moglie in chiesa: si scambiano qualche visita. Entra in salotto e salutali; prenderai un gelato anche tu».
«Mamma, se è possibile, risparmiami. Mi chiuderò in camera mia con Marco e non darò alcun fastidio».
«No» — fu la perentoria risposta della madre.
«Non possiamo fare questa figura. Sono persone che contano, oggi! Sanno di te… sono così gentili».
Un nodo di pianto, forse di sdegno represso, chiuse la gola di Valeria. Si avvicinò al lavandino, prese un bicchiere d’acqua e lo bevve d’un fiato.
«Dovrò salutare il “fascista”» — pensò — «E’ un ordine! Non avrò dunque mai una vita solo mia, una volontà che gli altri rispettino?».
E più dolorosamente delle altre volte si presentò alla sua mente l’immagine di Marco.
Entrò in salotto e con fredda cortesia tese la mano agli ospiti, ma non poté sottrarsi alla loro invadenza.
La obbligarono a sedere: le rivolsero una filza di domande insulse e moleste, che la resero presto infelice ed oppressa.
Non si faceva che ricordare l’invito che, nel mese di maggio del ‘36, giusto un anno prima, il segretario aveva ricevuto, nientedimeno che dal governo, per partecipare alla sfilata dei cortei che attraversavano le strade della capitale, in occasione della tanto ambita proclamazione dell’Impero Etiopico e dell’Imperatore, nella persona di Vittorio Emanuele III.
E giù a raccontare i particolari della grande e solenne cerimonia; il fasto di Roma imperiale, riportata allo splendore dei Cesari!
Proprio come aveva detto il Duce nel suo discorso; la folla eccitata che non si poteva tenere a freno, mentre da tutte le parti si gridava:
«Du-ce! Du-ce! Du-ce!»
I cortei avevano fatto l’alba e non si scioglievano ancora.
«Anch’io ho visto e sentito qualcosa, ma non sono uscita di casa quel giorno».
E quelli: «Che peccato, veramente che peccato! Avrebbe dovuto vedere le centinaia di bandiere che sventolavano sul Campidoglio e per tutta Roma!».
Valeria finalmente si astrasse dalla conversazione, approfittando dell’entrata della madre, che portava il vassoio coi gelati.
Ripensò a John e ad Emily, così cari, così premurosi e sensibili nei suoi riguardi e fu invasa da un’ondata di nostalgia, dal ricordo indimenticabile di quella parte di vita passata con Emily a Messina, a Napoli, a Firenze, a Roma, che allora pur le pareva triste, perché la privava della sua famiglia. Ora era tornata nella famiglia, orbata del padre, amministrata dall’autorità ottusa della madre e dalla vanità superficiale di Olga.
Finalmente Nina le riportò il piccino, che aveva sonno; così Valeria, sfoderando sorrisi di qua e di là, riuscì a sottrarsi a quell’ambiente, insopportabile alle profonde ferite del suo animo, che non si sarebbero mai più rimarginate.
(Continua…)