Desiderio infinito! Capitolo 7 (Parte seconda)

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Ritornata a Napoli, non informò Valeria delle sue peripezie; voleva darle la tranquillità necessaria al suo carattere apprensivo. Il piccolo Marco era un amore, col suo incarnato roseo, e con i suoi occhi grandi e più azzurri del cielo! «Come il padre! E’ il suo ritratto» — diceva Valeria con un tono di voce dal quale non si capiva se fosse lieta o triste.
Emily, in quel soggiorno napoletano, si prodigò in mille modi per Valeria ed il piccolo. Spesso restava a guardare trasognata il pupo che dormiva. Una volta Valeria la sorprese in atteggiamento così materno, china sulla culla, che provò un’acuta fitta di gelosia. Emily si riscosse dalla sua estasi e disse: «Valeria, quando ce ne vogliamo andare a Roma?».
L’altra rispose che non spettava a lei prendere questa decisione. «Io devo solo e sempre ringraziarti!» — rispose.
Ma le parole furono dette con un tono che rispecchiava uno stato d’animo lontano dalla riconoscenza, carico solo di amarezza.
«Valeria» riprese Emily — «ti dà fastidio ch’io ami tanto tuo figlio? Dimmi la verità. Io a Roma ho preso in affitto un bell’appartamento per noi e per il piccolo. Ho assunto anche una domestica, che ti dia una mano, ma se tu preferisci restare a Napoli, non ti costringerò a seguirmi…».
Le nobili parole di Emily ebbero il potere di scuotere il malumore di Valeria e di farla sentire piccina e meschina. D’impeto rispose:
«Ma no, che dici? Sono solo un po’ nervosa… Il parto è stato una esperienza traumatica. Dobbiamo partire. Tu devi lavorare ed è giusto che qualcuno ti aspetti a casa. Eppoi… io devo tenere i conti, non è vero?» — chiese con tono più allegro.
Emily la guardò con tenerezza. Ella sapeva quanto costava a Valeria fingere così e dividere il figlio con lei. Cercò d’immaginare se stessa nelle vesti di Valeria: la comprendeva, oh, se la comprendeva! «Siamo due povere disgraziate» — pensò. L’indomani cominciarono a fare i preparativi per la partenza, che avvenne dopo due giorni.
Emily volle prendere la macchina con l’autista che li accompagnasse a Roma fino alla nuova abitazione, per evitare uno strapazzo al bimbo, se fossero andati col treno. Valeria era contraria a fare tante spese, perché il bambino era sano e forte e il tempo era buono, ma Emily fu irremovibile e così partirono in macchina. Il piccino dormì lungo tutto il viaggio, nel suo cesto rivestito di seta, tutto merletti e nastri.
Nel nuovo appartamento si trovarono subito a loro agio: erano solo tre camere, ma spaziose e con una bella esposizione soleggiata. Emily non volle turbare oltre Valeria e la lasciò sola mentre sistemava la camera per sé e il bambino, per il quale aveva ella stessa comprato una bellissima culla. Se ne andò anch’ella nella sua camera a riordinare le tante cose che aveva portato da Napoli, sperando di sistemarsi definitivamente a Roma. Intanto pensava:
«Quando le dirò che sono senza lavoro? Per adesso lascerò correre, poi si vedrà. I soldi per il momento non mancano. Alla fine dovrò pur trovare un nuovo lavoro!».
L’indomani uscì, dopo aver baciato il piccolo e raccomandato alla domestica di mettersi totalmente sotto la direzione di Valeria.
Si recò ai Grandi Magazzini e comprò tante cose belle e inutili per Marco. Fece anche degli annunci pubblicitari per trovare lavoro e si sentì sollevata, al ritorno, che Valeria non le ponesse alcuna domanda.
Più tardi, in serata, disse che sarebbe rimasta a casa qualche giorno, essendo stata sospesa momentaneamente la lavorazione del film. Valeria, dal canto suo, pur essendo molto presa dalla cura del bimbo e dalla direzione della casa, intuì che Emily nascondeva qualche preoccupazione.
«Povera Emily» — pensava — «non è più la regina del palcoscenico! Ha perduto quell’espressione radiosa che le illuminava il viso bellissimo». Sentì stringersi il cuore, pensando che, insieme col suo bambino costituiva ella stessa una delle preoccupazioni di Emily.
Un giorno che questa era uscita, Valeria entrò nella sua camera, di proposito, come per ritrovarvi il vero umore di Emily.
Vide il guardaroba aperto e in disordine: alcuni abiti erano scivolati a terra. Un tiretto del cassettone era aperto e lasciava intravedere il caos. Sul piano superiore il portagioielli era aperto e vuoto. Si meravigliò, mentre le tornavano in mente le parole di Emily alla domestica:
«Brigida, non vi preoccupate della mia camera… Me la vedo io al ritorno».
Dove teneva Emily tutti i gioielli regalatile da Alfred?
Aspettò con ansia che l’amica rientrasse, ma, quando la vide comparire sulla soglia, si accorse subito che era di pessimo umore. Infatti la poveretta era stata in parecchi posti, per rispondere a degli avvisi pubblicitari, senza concludere niente di positivo, e mostrava chiaramente sul viso la sua insoddisfazione. Pensò d’informare finalmente Valeria sulla reale situazione, in cui era venuta a trovarsi. E lo fece con calma, con una espressione di maturità dolorosa, che fece male a Valeria più che se avesse imprecato ed urlato.
«Povera cara» — disse Valeria abbracciandola.
La domestica aveva terminato il suo lavoro, ed era stata mandata più presto del solito, così le due donne poterono parlare con assoluta libertà.
«Dimmi, Emily» — fece Valeria — «Che hai fatto dei gioielli di Alfred?».
«Li ho venduti quasi tutti». Fu la secca risposta.
Valeria scoppiò in pianto. Emily si stupì di quel pianto così accorato e disse:
«Non aver paura, Valeria. Al bambino non mancherà mai niente» — poi aggiunse con tono abbastanza convincente:
«Ho lasciato il cinema, perché mi ricordava troppo Alfred. Desidero un nuovo lavoro e lo troverò. Abbiamo un conto in banca che non finirà facilmente. Eppoi tengo conservati ancora pochi gioielli, ma costosissimi».
In quel momento Valeria sentì tutta la grandezza d’animo di Emily e ne fu sopraffatta. Giurò a se stessa che, anche a costo di strapparsi il cuore, non l’avrebbe mai privata del bambino. Fu, quella, una serata molto triste, alleviata solo dai trilli di Marco. Ad una certa ora si ritirarono nelle rispettive stanze per dormire.
Ma, nel cuor della notte, Valeria fu svegliata da un rantolìo strano, che la fece sobbalzare e volgere immediatamente verso la culla.
Vide — «Dio mio» — vide il bimbo divenuto quasi paonazzo, per difficoltà di respiro. Gli mise una mano sulla fronte e sentì che scottava. Capì subito che il suo piccolo correva grave pericolo: aveva riconosciuto i segni della terribile difterite. Urlò disperata, facendo accorrere Emilly, che spaventatissima chiese:
«Che succede, Valeria? Marco ha la febbre… tutto qui?». Valeria, impazzita gridava:
«E’ il bacillo di Loffler. Se non lo soccorriamo subito il nostro bambino morirà».
Emily non riusciva a tollerare questo pensiero. Avrebbe picchiato Valeria per avere avuto il coraggio di esprimerlo, ma, avvicinatasi alla culla, vedendo il bambino rantolare, sentì che se gli fosse successo del male ella non avrebbe potuto sopportarlo. Poi, seguendo le istruzioni di Valeria, che aveva ripreso il controllo di se stessa, si precipitò per la strada al più vicino ospedale per chiedere soccorso. Immediatamente partì un’autoambulanza per prelevare il bimbo e ricoverarlo d’urgenza.
Emily e Valeria passarono le ore più terribili della loro vita. Attesero, attesero tanto, prima che un’infermiera comparisse nel corridoio chiedendo:
«Chi è la madre del bambino difterico?».
Valeria non poté rispondere; sentiva che tutte le forze l’abbandonavano. Emily, come stralunata, chiese di che si trattasse e, come in sogno, ascoltarono entrambe la risposta miracolosa: «Il bambino è forte, ce l’ha fatta! Il dottore vuole vedere la madre».
Erano in una clinica molto accogliente, dove era finita Emily quella sera, come impazzita, in cerca di aiuto. Rimasero, dunque qui, finché il piccino non fu in condizioni di tornare a casa. Ciò avvenne nel pomeriggio del due ottobre 1935. Un’infermiera disse loro:
«Affrettatevi ad andare via o decidete di andarvene domattina, perché più tardi parlerà il Duce e ci sarà tanta folla per le strade, che vi sarà difficile raggiungere presto la vostra casa». Con un solo desiderio Valeria ed Emily decisero di ritornare a casa e chiamarono immediatamente un taxì, il quale però non poté giungere che con qualche ora di ritardo, a causa dei posti di blocco dei fascisti e della moltitudine di persone che intricavano letteralmente il traffico. Le due donne si guardarono per un momento incerte, poi decisero di tentare lo stesso. Avvolsero ben bene il piccino in uno scialle di lana e si posero in macchina; ma fatte poche centinaia di metri, s’imbatterono in un trambusto tale che la macchina si dovette fermare.
«Ma cos’è mai questo?» — chiese dal finestrino Emily spazientita. Un uomo nerboruto, sbracciato, le rispose con gesti da fanatico:
«A quest’ora vi mettete in cammino per le strade di Roma? Non sapete che stanno per trasmettere il discorso di Benito Mussolini da Palazzo Venezia? Per tutte le strade e le piazze sono collocati gli altoparlanti. Starete fermi un bel po’, perché dopo ci sarà il corteo. Sentirete che discorso…!» — e si fregò le mani dalla soddisfazione.
Roma, infatti, era imbandierata a festa e gremita di fascisti in divisa che scorazzavano di qua e di là con le loro motociclette e tenevano a bada la folla entusiasmata fino all’esaltazione.
Dagli altoparlanti, collocati nei punti nevralgici della città, si sentiva il brusìo della folla di Piazza Venezia, osannante il Duce che finalmente fece la sua apparizione alle diciotto e quarantacinque. Valeria stringeva al cuore il suo piccino e ripensava alla sorte di Marco, mentre le parole tonanti del Duce le ferivano gli orecchi ed il cuore:
«Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria».
Lo ascoltavano più di venti milioni di Italiani, che, stretti idealmente a lui, formavano «un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola».
La folla si agitava in grande fermento.
«Si combatte contro la più nera delle ingiustizie, perché si tenta di negare all’Italia un posto al sole!».
«Con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni! Ora basta!»
«Italia proletaria e fascista, in piedi!».
La folla impazzita proruppe in un applauso frenetico, che mescolandosi con gli urli di entusiasmo emanati dagli altoparlanti, creavano un fragore insostenibile.
Emily e Valeria si tapparono gli orecchi, dopo aver protetto con la cuffietta quelli del bimbo. Al che l’autista gridò:
«Signo’ e, che fate; mi volete far passare un guaio! Se ci vedono i fascisti! Signo’ battete le mani!».
Quando finalmente poterono rientrare nel loro appartamento erano due donne distrutte, ma, nello stesso tempo, felici.
Valeria, quando si furono un po’ riprese, disse con molta fermezza: «Emily, tu non puoi e non devi sciupare tutti i tuoi soldi per noi. Scriverò una lettera a mia madre, la supplicherò di aiutarmi». «Non lo dire una seconda volta! Non lo dire mai più!» — gridò Emily.

(Continua…)