Desiderio infinito! Capitolo 10 (Parte seconda)

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Il tarlo della diffidenza e l’amore crescente per gli esperimenti nuovissimi che andava realizzando, finirono col mettere una distanza con il passato. Non lo distrussero, ma crearono una specie di intercapedine, una zona isolante, dove almeno egli non soffriva più con uno strazio che lo infiacchiva e lo distoglieva pericolosamente da un lavoro, dove l’unica garanzia per la sua salute era l’attenzione più assoluta.
Così erano passati quasi quattro anni. Ora sapeva del suo male gravissimo; egli stesso ne aveva fatto la scoperta e ne aveva parlato col
direttore, il quale lo aveva subito isolato, in attesa di ordini dai superiori, e per non far conoscere la terribile verità agli altri, col pericolo di creare qualche cedimento nei propositi.
Il governo, informato, si era dato subito da fare per ogni possibile tentativo di strapparlo alla morte. Ma Marco accettava, amaramente
rassegnato, la sua sorte, ben sapendo che la guarigione, già di per sé rarissima, avrebbe lasciato nel suo corpo segni così debilitanti e menomanti ch’era preferibile la morte.
Si vive e si muore, a volte, per cose futili; almeno egli moriva per aiutare la scienza, per evitare agli altri i suoi errori, che, in fondo non erano errori, ma accidenti imprevedibili.
Non avrebbe accettato da nessuno parole di speranza, offensive e puerili… Ma il dottor «Maximus» non temeva le sue risposte, né le avrebbe provocate, tanto era sovrano il suo atteggiamento, pur nella umiltà di una dedizione assoluta al suo compito di medico e di scienziato. Dopo averlo esaminato per bene, gli aveva detto, con estrema semplicità che il suo non era un caso per forza disperato.
«A dispetto della sua aureola, io la strapperò alla morte, figliolo».
«Ne vale la pena?».
«Questo lo sa Iddio. Io farò il possibile come medico».
Marco scuoteva la testa, accigliato, mentre l’altro soggiungeva:
«Certo restare invalido per tutta la vita, magari su una sedia a rotelle, impotente a crearsi una famiglia, non è facile; noi medici non possiamo vivere solo per noi, ma soprattutto per gli altri. Appena potrà farlo si metta a scrivere; scriva tutto quello che ha appreso, intrapreso e sbagliato. Scriva tutto, tutto, con grande sincerità e avrà fatto più del suo dovere».
Ripensava all’ultimo colloquio avuto con «Maximus», che da quando si trovava negli Stati Uniti, era l’unica persona che vedeva con piacere, quasi ogni giorno. Non si aspettava, nel modo più assoluto, che gli fosse annunciata la visita di una persona amica.
Sorrise alla cosa impossibile: egli era come prigioniero di un segreto militare; nessuno doveva più sapere niente della sua esistenza. Ma lo sventurato non aveva fatto i conti col fascino travolgente e peccaminoso dei dollari di John, indaffarato, a causa sua, già da qualche giorno. Con la sua influenza, il suo nome e la sua enorme ricchezza, egli si poteva permettere quasi tutto.
Così Valeria fu fatta entrare sola nella camera di Marco.
L’incontro tra i due fu caratterizzato da un’estaticità paralizzante. Egli la guardava dal suo letto, il bel volto emaciato sui cuscini
bianchi, e credeva fermamente in un’allucinazione.
«Forse la mia debolezza mi fa vedere Valeria in un’altra donna. Ma chi potrà essere costei?».
Valeria guardandolo ebbe un tuffo al cuore, credette per un attimo che sarebbe crollata sul pavimento; invece si accorgeva di muovere i piedi e di avvicinarsi lentamente allettino di Marco, senza neanche immaginare l’espressione del proprio viso, inebetito dalla grande emozione.
Poi d’impeto si buttò in ginocchio presso di lui, nascose il viso sul suo petto e scoppiò in singhiozzi.
Marco, consapevole adesso, le accarezzava i morbidi capelli. Dopo un po’ le disse:
«Sei stata capace di tanto? Come hai fatto?».
«Non ne parliamo, adesso. Dimmi solo come ti senti… che dicono i tuoi medici?».
«Cara, temo proprio che dovrò toglierti subito ogni illusione». Valeria, adesso, lo guardava atterrita: com’era cambiato!
Anche il timbro della voce era diverso, come se d’improvviso egli fosse invecchiato di moltissimi anni.
Scoppiò di nuovo in pianto, ma questa volta un pianto silenzioso, maturo di sensazioni previste, di accettazione di tutto il male capitato a Marco, ch’ella avrebbe diviso con lui, fino all’ultima possibilità.
Quindi si asciugò gli occhi che adesso Marco baciava, come risvegliandosi da un sogno. Al gesto affaticato ch’egli fece per tentare di mettersi seduto, ella, subito in piedi, l’aiutò, lo sistemò, con gesti esperti, abituali.
«Sembri una infermiera perfetta» — esclamò Marco meravigliato.
«Lo sono davvero, caro. Sono stata anche promossa direttrice. Lavoro alle dipendenze del prof. Giovannini».
«Giovannini? E’ per caso qui? Che miracolo è questo?».
Con le mani avvinghiate alle sue, Valeria, per sommi capi lo informò di tutto quanto si era saputo e fatto per lui.
Marco non riusciva a comprendere tutto; c’erano tanti vuoti nel racconto di Valeria. Quante cose dovevano essere capitate a lei in quattro anni! Forse non avrebbero avuto altre occasioni per spiegarsi, ma ora egli voleva rivolgerle quella domanda che lo aveva ossessionato da quando era partito da Napoli. Quindi le chiese con voce tremante:
«Valeria, è vero? Vero che abbiamo un figlio?».
«E’ il tuo ritratto» — rispose la poveretta, sperando di farlo contento, mentre faticava a trattenere le lacrime.
Invece egli assunse un’espressione disperata e disse:
«Dio! Dio! Dio! Perché lo hai voluto?» — Poi si avvide che Valeria era sull’orlo di un collasso; allora parve placarsi, mentre chiedeva piano: «Sa di me?».
Valeria faceva di si col capo; ora le era impossibile parlare. Seduta accanto a lui su una sedia, si sporse sul lettino e lo abbracciò forte, come per poter credere in una realtà incredibile e dare a lui il coraggio sufficiente ad accettare la responsabilità di essere padre.
Alla fine si guardarono negli occhi, senz’altro desiderio che non finisse mai quel momento.
Invece fu bussato discretamente alla porta.
Entrò il prof. Giovannini e Valeria preferì uscir fuori perché parlassero con libertà. Fuori era Adriano, che aspettava apparentemente tranquillo, ma pieno di ansietà sul conto di Valeria. Questa gli chiese: «Adriano, perché non sei entrato?» — ed in quel momento si accorse di dargli il «tu». Adriano accettò la novità con visibile piacere e rispose: «Penso che non sarebbe stato il caso; corriamo anche il rischio di stancarlo troppo. Eppoi… egli è certamente un uomo che sta soffrendo le pene dell’Inferno. Non voglio aumentarle col mio viso che tira schiaffi!». Il tono voleva essere scherzoso, ma Valeria vi sentì una punta di amarezza, anche perché il suo sguardo era cupo, quasi triste. Infatti Adriano sentiva con sofferenza che Valeria gli era più lontana del solito, nonostante il tu che le era scappato, forse in un momento di confusione gioiosa del suo spirito.
Il viso di lei assumeva l’espressione di chi voglia sfidare il destino, mentre accendeva una sigaretta, con gesti calmi e misurati.
«Questa donna accetta quell’uomo finito e con lui la sua croce! Io non riuscirò mai a persuaderla del contrario…» — pensava Adriano.
Intanto Marco e il professore Giovannini parlavano come ai vecchi tempi, dimentichi momentaneamente della tragica circostanza. Marco poneva mille domande sugli amici comuni, sull’ospedale, sulla sua indimenticabile Napoli. Il prof. Giovannini cercava di soddisfare ogni domanda, non trascurando di tessere gli elogi di Valeria, che era una collaboratrice preziosa. Pronunziò incidentalmente anche il nome di Adriano, il suo primo aiuto.
«Me lo presenti, voglio conoscerlo» — disse improvvisamente Marco. Adriano gli fu presentato; Marco lo squadrò da capo a piedi, poi disse:
«Valeria lavora con lei?».
«Con me e con Giovannini…. » — La risposta di Adriano fu un po’ esitante e ciò non sfuggì alla sensibilità esasperata di Marco. All’improvviso entrarono due infermieri, che pregarono i presenti di andare via, perché il paziente non si poteva affaticare oltre. Vedendo uscire Adriano, Valeria gli andò incontro, ma prima che parlasse egli le spiegò che Marco aveva pregato gli assistenti di lasciarlo ancora pochi minuti solo col prof. Giovannini. Valeria sorrise, imponendosi la calma: avrebbe salutato tra un po’ il suo Marco. Ma l’ultimo colloquio tra i due medici non fu dei più piacevoli.
«Professore, ho da chiederle una grande cortesia…. » — Marco esitò, sospirò, poi riprese a fatica, un po’ per l’emozione, un po’ per la stanchezza insolita di quella giornata:
«Soltanto lei può convincere Valeria che non deve pensare più a me. Le sono grato per quanto ha fatto finora, ma lei sa bene che io sono irrecuperabile; non solo, ma andrò peggiorando… Inutile continuare un’agonia a due. Le dica che pensi a nostro figlio; io non voglio più vederla. Voglio essere lasciato in pace. Voglio morire solo, senza dare spettacolo. La distolga da me, perché io sono l’ombra della morte».
Invano il professore tentò di fargli capire come fosse diversa la situazione, come, cioè, per Valeria suonava vita ogni attimo che poteva passare con lui. Alla fine, Marco apparve stremato, chiuse gli occhi e fu necessario lasciarlo riposare. Gli assistenti rientrati in camera, lo collocarono sopra una barella che spinsero fuori da una porta interna, verso la sala di rianimazione.
Valeria aspettava paziente e quando finalmente vide uscire il professore, pensò di entrare di nuovo lei nella stanza di Marco, ma fu spiacevolmente sorpresa di vederla vuota. Si rivolse con aria implorante a Giovannini.
«Non è niente più di un po’ di stanchezza». — Diceva il brav’uomo.
«Valeria, lei si deve abituare al concetto che Marco è molto malato ed ha più bisogno di riposo che di compagnia. Il parlare lo spossa, così abbiamo fatto più male che bene a trattenerci tanto».
Valeria non si raccapezzava; sentiva nelle parole del professore qualcosa di ostile per lei. Cosa avevano mai detto lui e Marco? Perché faceva quel viso, invece di dirle: — «Valeria, ora Marco non è più solo; non lo faccia affaticare e non gli manchi neanche un minuto!». Questo era il discorso che ella si aspettava. Cos’era, invece, quest’aria di mistero, che creava una sospensione cupa ed insopportabile? E tartassava di domande il poveretto, che rivolse a John e ad Adriano due occhi
colmi di disperazione, non volendo e non sapendo dire a Valeria che Marco non voleva più vederla, che non si sentiva già più di qua, che
voleva morire solo ed in pace, che la sua visita aveva raddoppiato le sue pene?
Adriano capì a volo; prese affettuosamente sottobraccio Valeria e le disse con voce pacata, ma ferma:
«Valeria, oggi Marco ha avuto troppe emozioni. Nel suo caso, anche una vibrazione in più del suo essere potrebbe provocare un collasso».
Così parlando, erano discesi giù e si erano avvicinati alla macchina, che li avrebbe riportati in albergo. Adriano la fece sedere; si sedette anch’egli e continuò:
«Entro domani Marco si sarà ripreso e piano piano si abituerà alla tua presenza. Devi essere brava e paziente: una mamma col suo bambino».
Valeria portò le mani al viso e cominciò a piangere con grande afflizione. Non avrebbe potuto immaginare che sarebbe finito così il suo incontro con Marco. Non aveva pensato ch’egli potesse essere già tanto debilitato: «una mamma col suo bambino».
«Oh, Marco» — pensava — «chi ci ha tolto quanto ci spettava? Chi ci tormenta così?».
Intanto un velenoso sospetto si insinuava dentro di lei: che Marco avesse deciso di non vederla più, per tentare di restituire alla vita almeno lei? Lei per il suo bambino?
Adriano la vedeva piangere, senza intervenire. Pensava ch’era meglio che sfogasse la sua amarezza col pianto, per dar posto poi alla riflessione che sarebbe venuta.
In albergo si trattennero qualche ora ancora tutti insieme, per potersene andare rassicurati sulle condizioni fisiche, molto precarie di Valeria. Quando finalmente la videro più calm John ed Emily si congedarono. Emily l’abbracciò e le disse:
«Cara, consolati; domani vedrai più chiaro. Per ogni cosa conta su di noi. A domani».
Adriano si congedò per ultimo. Sentiva il bisogno di parlare con Valeria da solo.
«Valeria» — le disse finalmente — «credo di aver capito tutto di te. Ti ammiro molto e ti amo più di prima. Ma non accennerò mai più a questo. Tuttavia…» — esitò alquanto, poi aggiunse: «Tuttavia, in qualunque momento avrai bisogno di me, voglio dire se hai bisogno di aiuto per te e per il tuo bambino, dillo a me solo.
Vorrei essere un taumaturgo per restituirti Marco intatto. Dio solo sa quello che provo per la tua sorte. Ti sarò vicino come un’ombra, anche se mi scaccerai. Veglierò su di te e sul piccolo Marco». «Grazie» — rispose Valeria con voce smorta — «grazie, Adriano; ora voglio restare sola».

(Continua…)