Venticinque secoli zippati
Tra maggio e giugno si sono susseguite a Paestum quattro giornate dedicate alla ceramica. Dorico di Mare era il titolo ma le intenzioni cui era ispirata la manifestazione erano chiarite dal sottotitolo Dalla fornace di Assteas alla ceramica di Vietri: un volo pindarico di venticinque secoli, zippati in poche ore, che solo un artista come Sergio Vecchio – lui stesso sembra incarnare una figura staccatasi, chissà per quale mistero, da uno dei vasi pestani – poteva immaginare e rendere verosimile. Ed è successo che in una delle quattro giornate una pioggia insistente costringesse vasai, pittori, studiosi e tutte le altre persone accorse quella sera, a ripararsi all’interno di una bufalara e che si decidesse di dare il via alla performance proprio in quel ristrettissimo spazio.
Sarà stato per la suggestione del luogo o per l’annebbiamento dovuto al fumo della fornace improvvisata: a un certo punto si è avuta la sensazione che i venticinque secoli che separano i ceramisti pestani da quelli vietresi di colpo non esistessero più. E questa sensazione di assenza di ogni riferimento temporale raggiunse il culmine nei momenti in cui Angela Pontrandolfo, spiegando le antiche tecniche, mostrava le ceramiche ritrovate a Paestum mentre i ceramisti vietresi erano intenti a realizzare su ciotole e piccoli piatti decori ispirati a quelli così mostrati.
Paestum è un luogo così speciale da emozionare tutte le volte che ci si ritorna, anche quando si è solo di passaggio. Ognuno di noi è portato a ripetere una liturgia evocativa attingendo ai rimandi delle prime visite, alle letture di testi che ancora non riescono a chiarire il mistero di questo insediamento, alle impressioni riportate dai viaggiatori del Grand Tour che arrivavano fin qui con ogni mezzo. Perfino con i fragili gozzi a vela dei pescatori vietresi, che nei mesi caldi si spingevano oltre il Sele per calare le proprie reti. Adesso sull’onda emotiva provocata da Dorico di Mare viene da pensare ad una grande Agorà pronta ad accogliere ceramisti di ogni nazionalità, della stessa razza che in ogni epoca racconta il percorso delle civiltà delle quali è testimone.
Quella sera, usciti dalla bufalara, attraversammo una strada sterrata sottoposta ma parallela a quella voluta dai Borbone, che spezza in due la zona archeologica. I templi apparivano ancora più imponenti e incuranti delle grandi nubi nere che nascondevano l’orizzonte, ed incoraggiavano la mente ad inseguire le nostre utopie. Quella della Fabbrica Felice di Ugo Marano appariva ora quasi una profezia.