Agroalimentare, il nanismo delle imprese italiane. Coldiretti: a rischio il Made In Italy. Nomisma: serve un fondo strutturale.

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E’ di ieri la notizia del passaggio del pacchetto di maggioranza di Pasta Garofalo alla multinazionale Ebro Food (con quote anche in Riso Scotti), è solo l’ultimo in ordine di tempo dei passaggi di brand importanti nel settore agroalimentare a multinazionali, come ad esempio Ragù e Bertolli da Unilever alla giapponese Mizkan o il gruppo catalano Agroalimen al timone di Star, o ancora Pernigotti in mano ai turchi di Toksoz.

Il rischio, come sottolineato anche dal Presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo, è quello di un’escalation delle multinazionali sul Made In Italy a tavola. Moncalvo ha sottolineato che la scalata non si limita solo ai brand di largo consumo, ma va anche su quelli “luxury” come ad esempio la Pasticceria Cova di Milano. “I grandi gruppi multinazionali che fuggono dall’Italia della chimica e della meccanica investono invece nell’agroalimentare nazionale perché, nonostante il crollo storico dei consumi interni, fa segnare il record nelle esportazioni grazie all’immagine conquistata con i primati nella sicurezza, nella tipicità e nella qualità” , ha spiegato Moncalvo.

Il problema però è che di italiano rischia di rimanerci solo il brand, avendo i player internazionali strategie globali, soprattutto sull’acquisizione di materie prime, allontanando quindi sempre di più il prodotto dalle sue origini.

Ma come può un’impresa italiana sopravvivere in uno scenario di grandi attori globali?

Affari & Finanza, il supplemento del lunedì di Repubblica, ha interpellato in proposito Denis Pardini, responsabile agroalimentare del Centro Studi Nomisma. Secondo Pardini la situazione sta come fotografata dal Presidente di Coldiretti, rimangono italiani solo i nomi, ma i prodotti ormai sono internazionali, un processo iniziato comunque molti anni fa, ad esempio con l’acquisizione del marchio Olio Sasso da parte di Nestlè.

L’unico modo di tutelare le origini di un prodotto, secondo Pardini, è quello delle filiere Dop e Doc, se non si è in presenza di certificazioni di questo tipo, che impongono la provenienza delle origini delle materie prime si può fare praticamente ciò che si vuole. La certificazione della filiera è un processo che naturalmente costa, ma sono costi che vengono ripagati da un notevole indotto da esportazione. In Italia ci sono 264 prodotti tipici tutelati, e contando anche i vini (altro annoso tema) si arriva a 450.

Eppure quello dell’agroalimentare è un settore che non risente dei cicli economici, nonostante ciò il volume degli investimenti rimangono limitati, le prospettive di crescita ci sono, ma le imprese italiane non crescono e, si sa, nel mare i pesci piccoli finiscono mangiati da quelli più grandi.

113339387-aee98b11-b339-4553-891c-20ef903748d5Le imprese agroalimentari italiane con più di 250 addetti sono appena 120, in Francia sono quasi il doppio, in Germania il triplo. Cosa si può fare allora per creare un ambiente favorevole alle imprese alimentari italiane?

La risposta di Nomisma è fare in modo che esportare un prodotto costi meno, e che ci si impieghi meno tempo. C’è il solito annoso problema della carenza infrastrutturale, specie nelle regioni meridionali, e del costo dell’energia, il 70% più caro che nella media europea.

La proposta che infine suggerisce Nomisma è quella di un fondo strategico.

PIETRO PIZZOLLA