di Renato Aiello
Dopo l’inaugurazione di venerdì 14 luglio, con cui si è ufficialmente aperta l’edizione 2017 del Giffoni Film Festival – primo ospite l’attrice Jasmine Trinca – è stata la volta di Paolo Giordano alla masterclass nella seconda giornata di sabato 15 luglio alla cittadella del Cinema.
«Giffoni è la metafora del mio personale rapporto con il cinema e le lettere: un luogo fisico e morale in cui imparare ad amare l’arte in senso lato. Questo Festival, del resto, somiglia infinitamente a un vivaio e questi ragazzi sono le querce del domani». Così l’autore de La solitudine dei numeri primi ha salutato un’entusiasta platea di masterclasser accorsi ad ascoltarlo. «Pur non essendo mai stato un feticista, mi considero un estimatore assoluto della scrittura sin da quando ho memoria – ha raccontato Giordano – Aver amato così tanto un universo intero fatto di carta e inchiostro – ha aggiunto – è stata la conditio sine qua non per la mia esperienza compositiva. Il risvolto della medaglia, però, continua a pesarmi: essere diventato scrittore ha in parte affievolito la mia libertà di estimatore. Continuo ad amare la lettura, ma certamente in maniera meno pura rispetto alla fase pre scrittore. Continuo ancora a stupirmi solo in sala», ha rivelato ai ragazzi.
Una passione, quella per la settima arte, che ha permesso a Paolo Giordano di approcciarsi con assoluta neutralità anche alla trasposizione cinematografica del suo primo libro, con cui nel 2008 raggiunse la notorietà e con cui si aggiudicò un meritato premio Strega, lui giovanissimo ed esordiente nel panorama letterario di nove anni fa: «Quando Saverio Costanzo ha iniziato a lavorare al film non mi sono preoccupato. La sua opera – ha spiegato – non doveva illustrare per immagini il mio scritto. Se così fosse accaduto, io in primis avrei pensato a un atto becero. Il regista, dal canto suo, ha subito dimostrato di possedere una propria istanza artistica, estetica e non di rado anche etica. Ha trasformato il testo in qualcosa di personale, guadagnandosi il giusto ruolo nel processo creativo della storia». Il film, che uscì nel 2010 nelle sale e vedeva tra i protagonisti Alba Rohrwacher e un semisconosciuto Luca Marinelli (oggi sempre più richiesto dopo i David di Donatello per Lo Chiamavano Jeeg Robot e il successo di Non essere cattivo), conserva ancora oggi le caratteristiche più vive del cinema di Costanzo, che di recente ha diretto la terza e forse ultima stagione di In Treatment su Sky Cinema e Atlantic: le inquadrature grandangolari deformanti e cariche di pathos, la camera a mano che segue i personaggi e li avvolge nella tensione della narrazione, il gusto per l’horror che si rifà al cinema italiano di serie B di Bava. Un’opera non sufficientemente compresa a suo tempo, passata per quel vietnam cinematografico che è il festival di Venezia per gli autori italiani, e che andrebbe recuperata oggi anche alla luce delle ultime fatiche del regista di Private e del bel Hungry Hearts (sempre con la Rohrwacher e con l’Adam Driver di Star Wars – Il risveglio della Forza e del Paterson di Jim Jarmusch).
Renato Aiello