Come tutti i thriller che si rispettino, prende avvio sulla scena di un delitto: un appartamentino, una sorta di garçonnière dall’arredamento vetusto che mostra chiaramente il disinteresse del nuovo proprietario, abitata da uno scapolo malvisto da un condominio composto essenzialmente da inquilini che viaggiano verso terza età. Sul pavimento, una sagoma disegnata con il gesso indica la posizione del corpo ormai rimosso della vittima, lo stesso scapolo impenitente. Sul luogo arrivano un uomo e una donna: lui, l’amministratore dello stabile, sedicente scultore, lei, donna misteriosa, una avventuriera, calcolatrice e sicura di sé. E lui, ingenuo e fragile, è come argilla nelle mani di lei. I due rimangono tutta la notte nell’appartamento, sfidandosi in un dialogo serrato ed ironico che ben presto si trasforma in una battaglia verbale. “Sarà poi vero che sono sempre le vittime quelle che finiscono per essere ammazzate?”: il quesito posto dalla donna, in maniera quasi casuale, diventerà, alla fine, il vero filo conduttore in questo lunghissimo dialogo ricco di colpi di scena che tiene viva l’attenzione dello spettatore fino alla fine.
Uno strano gioco, divertente, ma anche di sottile psicologia, quello che viene condotto dalla donna nei confronti del goffo interlocutore, in quell’ambiente in cui della vittima resta la sagoma disegnata a terra a testimoniarne la morte ma dove tutto sembra evocarlo. E’ un rincorrersi di parole, doppi sensi, equivoci linguistici, fraintendimenti che guidano chi guarda a svelare segreti più o meno taciuti, fino a un imprevedibile epilogo.