Si sente parlare molto spesso, in quest’ultimo periodo, anche per l’evidente situazione politica del nostro Paese, di identità culturale, senza trascurare l’identità alimentare, quella del cibo autoctono e tipico, l’identità di un territorio che si vorrebbe mantenere e conservare.
Si tratta di un discorso spesso usato a sproposito: i confini identitari non sono leggi di natura, non sono immutabili, perché la contaminazione linguistica, culturale ed etnica è inevitabile, e di conseguenza non si può che guardare a evoluzione e cambiamento.
Mi sono occupato di identità partendo dalla ricerca sociologica e da studi effettuati sul campo per individuare alcune caratteristiche di luoghi ben specifici, il Cilento, e della gente che li ha abitati. Da quei lavori è emersa l’esigenza di definire e perseguire una strada che la modernità sembrava disconoscere, quando invece è proprio dal passato che si deve partire per evidenziare la specificità, guardando contestualmente al nuovo.
Il problema è come coniugare questi due aspetti: tradizione e caratteristiche tipiche e dall’altro innovazione e futuro. Credo che lungo questo crinale occorra muoversi, per avere la conoscenza di quello che abbiamo ed al tempo stesso la consapevolezza che la stessa debba essere proiettata verso ciò che sarà l’evoluzione sociale. A tal proposito, i miei lavori, e quelli di altri importanti studiosi del territorio, si indirizzano verso quella che definiamo identità evolutiva, un’identità che parta dalla cultura e la proietti verso nuove modalità di utilizzo.
Vediamo questo territorio. Esso racchiude risorse importanti, sia culturali che naturali, che vanno certamente preservate e valorizzate: un Parco con le sue ricchezze in termini di habitat e forme di vita, una storia millenaria, che va dal megalitismo, alle civiltà greche, romane, lucane, italiche in senso più lato, per giungere al monachesimo italo greco e a tutte le espressioni religiose che si sono sviluppate ed adattate, al medioevo e alle dominazioni avvicendatesi e sovrapposte che hanno lasciato evidenti tracce. Infine, ad una cultura molto più recente che ha privilegiato il mondo degli umili e i contadini che hanno abitato e lasciato il segno, oggi riscontrabile in tanti musei della civiltà contadina di questa vasta area.
Ciò per dire che il passato c’è, è ricco e particolarmente fecondo. Eppure, se si guarda al presente, tutte quelle ricchezze, anche se riproposte da tante associazioni e istituzioni culturali, corrono il rischio di essere abbandonate, come accade con i giovani che lasciano il territorio ed emigrano per trovare condizioni di vita più favorevoli.
Per queste ragioni, non credo si possa pensare di mantenere l’esistente, operando unicamente attraverso un’azione protezionistica e conservativa. La questione va inquadrata in un ambito più complesso. L’idea è di guardare a ciò che è la società attuale, pur con gli evidenti limiti che privilegiano individualismo ed assenza di azioni comuni.
Ripeto: ci sono tanti giovani che si danno da fare, ma sono pochi. Così come è carente l’attività politica di valorizzazione di ciò che c’è, legata a lacci e ritardi burocratici, a mancanza di iniziative, ad opportunità che tardano ad essere realizzate, per non parlare delle infrastrutture e della mancanza di organizzazione. Pensare ad itinerari culturali che favoriscano il passaggio dalle zone costiere a quelle più interne e magari ricche di storia è una delle possibilità cui prestare particolare attenzione.
Certamente tutto deve essere fatto per far vivere il luogo, consentire i silenzi e fruire della natura a tratti incontaminata. Perseguire la “restanza”, un termine coniato da Vito Teti e di cui si occupa nel territorio anche lo studioso Luigi Leuzzi, che tra le forme identitarie ha introdotto il concetto di anima dei luoghi partendo dalla mitoarcheologia.
Non si può pensare ad afflussi massicci, ma a regolamentare visite ed ingressi e permettere di avere uno stretto contatto con la ricca cultura dei luoghi, proprio per attenuare l’abbandono e favorire una restanza che sia riformulata su basi innovative.
L’indicazione è di agire attraverso il concetto di “noi”, o di “noietà”, non affidarsi a qualcosa legato al solipsismo e ad iniziative singole che trovano il tempo che trovano. Occorre far crescere, attraverso la formazione ed una nuova consapevolezza, anche legata alle conoscenze tecniche molto più accentuate rispetto al passato, la gente di questi posti marginali, che procedendo in tal senso è destinata anche in futuro ad essere emarginata.
Dunque, qualcuno direbbe un nuovo “umanesimo”, nuove modalità di coinvolgere e di cercare di utilizzare soprattutto le attività legate a cultura e turismo. Il motto deve essere: portiamo i turisti a vedere le “pietre”, ad assaggiare i prodotti tipici, ad apprezzare luoghi incantevoli e ricchi di fascino.
Questa sembra una strada percorribile. La difesa tout court di ciò che è un tempo andato è fuorviante, perché si tratterebbe solo di conservare l’esistente ma non si riuscirebbe a mantenere vivo un territorio che è destinato a scomparire.
Dunque, diamo senso ad un’identità evolutiva, costruita su basi solide ma rivolte al futuro.