“Portiamo la poesia in Ospedale”. L’idea del poeta vietrese Enzo Tafuri dopo il suo ricovero per ictus.

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“Il Dio del miracolo, camici bianchi, piume di carezze, un sorriso come vele di sole, il corpo rinasce”. Sono alcuni versi tratti dalla poesia-racconto “Ischemia transitoria” scritta dal poeta vietrese  Enzo Tafuri durante il suo ricovero all’Ospedale San Leonardo di Salerno   per un ictus ischemico che fortunatamente non ha causato danni, grazie all’ottima operatività del Centro Ictus H24 diretto dalla responsabile del reparto “Stroke Unit”, la Neurologa Rosa Napoletano. Una volta dimesso il poeta Tafuri ha sentito forte l’esigenza di dimostrare la sua gratitudine a tutto il team della dottoressa Napoletano, al personale medico e infermieristico del reparto che per nove giorni lo ha curato. “Ho capito quanto sia importante per un ammalato ricoverato in un ospedale grigio, vecchio, silenzioso, la vicinanza di una persona che ti ascolti, che ti dia conforto” – ha raccontato Tafuri – “L’inconscio della società rifugge l’ospedale, immagine di nebbie lontane. Letti tecnologici, laboratorio di fili e sensori, corpi spenti ossigenati, trapasso immediato come un inchino d’addio.   Grazie al ritmo degli infermieri, ai medici attenti nel volto di tenerezze, capisci che non sei solo nel vuoto di tenebre e nell’insonnia di dormiveglia, il fazzoletto sugli occhi deterge una lacrima nel pulsare dell’animo”.  Tafuri ha raccontato i concitati momenti del suo ricovero in ospedale:” Già al “Pronto Soccorso” ho vissuto, come tutti, l’ansia e il vuoto di pensiero. Ricovero urgente, anamnesi, prelievi e tac.  Mentre mi portavano nella mia stanza, in corsia vedevo volti lontani, sagome inerti, vuote di riflessi: lo sguardo si abituava ai camici bianchi.  Nella stanza quando guardi fuori dalle finestre anche il panorama è diverso, sembra avere solo colori spettrali. Le corsie sono mondi sonnacchiosi, eppure le nuove leve infermieristiche e di servizio si muovono con esperienza professionale, con preparazione. I medici osservano la ritualità mattutina, si consigliano tra loro sulle terapie da seguire.  In tutto questo però il paziente si sente un numero, un numero zero di voce urlante che ti esplode dentro, una cartella clinica, non una persona.  C’è una spersonalizzazione totale.  Tutto questo si potrebbe migliorare perché gli ospedali servono. Ci aiutano a vivere con più sicurezza in attesa dell’ultimo miraggio. Per la società civile, noi tutti sani, l’Ospedale non esiste. Non lo accettiamo psicologicamente.  Ho pensato che potrebbe essere utile per i pazienti organizzare degli incontri mensili durante i quali recitare delle poesie, incorniciarne alcune e appenderle nei corridoi dei reparti, presentare dei libri, fare dei piccoli concerti, delle piccole mostre d’arte, insomma cercare di raccordare la società civile con il sistema ospedaliero. Far ritrovare la normalità della vita ai pazienti. La poesia è terapeutica!  Portiamola in ’Ospedale”.

Aniello Palumbo