Salerno Classica, penultimo appuntamento sabato 11 alla Chiesa di San Giorgio.

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Penultimo concerto per Salerno Classica, sabato 11 dicembre, nella chiesa di San Giorgio, alle ore 20,30, ideata dalla Associazione Gestione Musica, un progetto articolato che ha visto le associazioni concorrere e ottenere il finanziamento dal Fondo unico per lo Spettacolo nella sezione Nuove Istanze 2021, con il progetto “Celebrazione, Tradizione, Innovazione”, 15 concerti che coinvolgono oltre il comune di Salerno, che ha sostenuto la kermesse, anche le città di Benevento, Amalfi e Brienza. 

Il dicembre “sacro”, dopo l’apertura dedicata a Dante, continua con una serata dal titolo Vox.  C’è l’idea che la musica sacra non debba essere frutto di spiritualità, bensì di emozioni derivanti dalla varietà di strumenti e voci, di colori e sfumature che permettono di toccare l’anima dello spettatore attraverso un suono particolare.

In Vox ascolteremo le voci del controtenore e dei violoncelli, in cui il timbro cristallino, puro e insieme caldo, candido e al tempo stesso carezzevole della voce umana, incontrerà quella incredibile e versatile del violoncello, con protagonisti Maurizio Di Maio e l’Apulia cello ensemble composto da Giovanni Astorino, Giovanna D’Amato, Vincenzo Lioy, Daniele Miatto e Luciano Tarantino. Raccolto e meditativo è il carattere della Cantata, “Ich stehe mit einem Fuss im Grabe” BWV 156, aperta da una breve sinfonia introduttiva, con cui si darà principio alla serata, nella quale non è difficile riconoscere uno dei brani più celebri di Johann Sebastian Bach: il Largo dal Concerto in fa minore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1056. Qui, la melodia, che ascolteremo dai celli, in origine veniva eseguita dall’oboe, il cui suono malinconico ed evocativo il carattere patetico della scena evangelica alla quale la Cantata si ispira (Matteo, 8, 13). “Ombra mai fu di vegetabile, cara ed amabile, soave più”: con queste parole inizia una fra le più celebri opere di Georg Friedrich Haendel: Xerses, re di Persia, sulle quali entrerà il controtenore L’esperto Haendel, siamo nel 1738, ne approfitta con sapienza, portando in una manciata di secondi l’animo del personaggio dalla vivida sensualità di quell’iniziale sguardo amoroso, all’irritata, concitata rabbia del proprietario di quel particolare oggetto d’amore. I violoncelli interpreteranno, quindi, la straziante purezza e la malinconica solennità dell’Adagio in G minore, che ha regalato imperitura fama a Tommaso Albinoni, anche se attraverso la creazione di Remo Giazotto. Il controtenore vestirà, quindi, i panni di Anastasio, cantando “Vedrò con mio diletto”, dal Giustino di Antonio Vivaldi, un’aria estatica in cui il protagonista si spende in dolci parole per la sua promessa sposa, Arianna. Ancora una pagina strumentale con il Finale de’ “Il Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini, in cui, il linguaggio, essendo lo spazio dell’incontro con gli altri, non contiene nulla, è vuoto di senso. La natura prende il sopravvento e la tempesta scuote i personaggi ridotti a foglie agitate dal vento. L’energia potrebbe condurre al caos, ma grazie alla musica, che tutto sconvolge e contiene, condurrà a un ordine finalmente meno bugiardo, in cui ogni “precauzione” diverrà “inutile”. Il controtenore esordirà, poi, nei panni di Cherubino, il paggio de’ Le Nozze mozartiane. Nell’opera si parla dell’amore in tutte le sue sfaccettature. Cosicché l’aria di Cherubino “Voi che sapete”, mentre fa comprendere la confusione dell’adolescente di fronte ad uno stato d’animo tanto soverchiante, si pone quale manifesto dell’eterno sentimento al suo primo destarsi. Seguirà uno dei Preludi più belli di Verdi, quello dell’opera Attila, breve e conciso, fondantesi su di un tema semplice e lineare che si ripresenterà nel finale del secondo atto, quando i Druidi canteranno le loro profezie. A questo tema si alterna un’idea melodica più dolce e affettuosa, che crea un contrasto emotivo evidente ed efficace. La conclusione solleva la tensione in modo perfetto e ben si collega con la narrazione che da queste note prende il via. Ancora Verdi con Nabucco e quel “Va’, pensiero, sull’ ali dorate”, il più famoso coro del melodramma italiano, il secondo inno nazionale, col suo salto musicale di ottava su “ali”, come a spiccare idealmente il volo verso una libertà agognata, un diritto umano. “…innamorati dispersi, gementi il “core” e “l’augello”, languor del Giordanello in dolcissi bruttissimi versi…” questo il giudizio di Guido Gozzano su “Caro mio ben”, una breve aria da camera che ascolteremo dal controtenore, che però non ha paternità certa. Il principale indiziato è Tommaso Giordani, figlio di Giuseppe Giordani, o di Giuseppe Giordani, il famoso Giordanello citato dal Gozzano o addirittura di Haendel, plagiata dallo stesso Tommaso Giordani, visto che la cellula musicale ricorda il celebre Largo dal Serse, anche se in versione ridotta e galante, più facile al consumo. Siamo all’ Evgenij Onegin di Petr Il’ic Cajkovskij, in campagna, nei pressi di un mulino, Lenskij aspetta Onegin con il suo secondo Zareckij: presentendo la morte, canta disperato il suo amore per Olga, “Kuda, kuda udalilis”, il dissolvimento di ogni sogno di gioventù. Omaggio ad Andrea Palladio di Karl Jenkins, alla sua bellezza estetica, che riprende lo stile dei compositori barocchi veneziani, prima di ascoltare quel “Lascia ch’io pianga”, famosissima aria di Almirena, dal Rinaldo di Haendel che non è altro che “Lascia la spina cogli la rosa”, l’aria di Piacere, dall’ oratorio “Il trionfo del Tempo e del Disinganno”, che Di Maio proporrà evocando, Carlo Broschi, detto il Farinelli, esempio di dolcezza d’espressione e abbandono malinconico. Si passerà, quindi, all’ “Amico magico” Nino Rota de’ Il Padrino, con il suo delicato fluire musicale, talvolta ingiustamente scambiato per semplicismo, lontano da ogni vezzo avanguardistico, non inconsapevole della lezione novecentesca di Igor Stravinskij. Una pagina intensa di Roberto Fasciano, dedicato allo Stupor mundi, e finale con l’Ave Maria di Giulio Caccini, con Maurizio Di Maio che dedicherà al pubblico, uno dei più grandi falsi della musica, poiché scritta da un russo vissuto negli anni Settanta del secolo scorso, Vladimir Fedorovic Vavilov, che resta, comunque, una pagina di rara liricità.