Cilentanità – linguaggio

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di Pasquale Martucci

Il linguaggio è uno degli elementi che caratterizzano un territorio e gli conferiscono una propria tipicità. Ed allora, in questo scritto mi soffermo sulle forme espressive che rappresentano la capacità di trasferire la memoria del passato, il modo di narrare le storie e le locuzioni utilizzate da alcuni protagonisti della vita quotidiana cilentana.

Tra gli anni sessanta e settanta la sociolinguistica cominciò ad interessarsi del multiculturalismo, dei dialetti, dell’alfabetizzazione, della socializzazione, del rapporto tra le lingue e il loro contesto di riferimento. Si affermava una sociolinguistica correlazionale (la relazione tra il linguaggio e la società e i risultati che si determinano), che si occupava di dati e di variabili, e una sociolinguistica interpretativa (etnografica) che studiava il linguaggio in “una situazione comunicativa concreta”, attraverso l’osservazione del testo, l’analisi della conversazione, l’ascolto e il parlato. Anche in questa seconda accezione, si era in presenza di analisi attente e dettagliate nel caso ad esempio di una conversazione. Non si trattava tanto dell’analisi logica o del sistema dei segni, quanto piuttosto della “comunità” più estesa e della comunicazione nelle “situazioni concrete”. (1)

Molti studi hanno riguardato il dialetto. In generale i mutamenti del linguaggio furono distinti in “aree focali” che innovavano nelle regioni circostanti, in “zone conservative” (linguaggi arcaici) e in “zone di transizione” (coesistenza di forme linguistiche identificate e zone di innovazione). Gli scambi ed i cambiamenti dei regimi politici causarono lo stesso mutamento linguistico. (2)

Il dialetto nelle comunità cilentane del passato era l’unico linguaggio conosciuto ed utilizzato. Con la fine del novecento, e con la diffusione ed acquisizione della lingua italiana anche nei luoghi più impervi e inaccessibili, molti termini dialettali sono stati riproposti e rivalutati, accostando le espressioni gergali alla lingua nazionale per mantenere integra l’identità linguistica territoriale. Per Bernstein il linguaggio e i sistemi simbolici portano al mantenimento e al cambiamento dell’ordine sociale, proprio perché il linguaggio è un insieme di regole alle quali si conformano i codici sociolinguistici, che però si realizzano grazie alla “cultura che agisce attraverso i rapporti sociali in contesti specifici”. Questo discorso è reso possibile dal processo di socializzazione che rende salda la struttura sociale. In seguito, con la divisione del lavoro una parte della popolazione tende a sviluppare un “livello di metalinguaggio di controllo e innovazione”, allontanandosi dal contesto. (3)

Siamo di nuovo in presenza di fughe in avanti che non supportano il nostro argomentare. È al contrario il concetto di alfabetizzazione basato sull’oralità e la scrittura che può portarci qualche spunto di riflessione. L’oralità realizza la conoscenza attraverso contatti e comunicazioni immagazzinati nella memoria: si sviluppa una relazione tra simbolo e referente e il significato di ogni parola è associato a situazioni concrete ed è accompagnato da “inflessioni vocali e gesti”. Questo sistema di oralità consente ad ogni generazione di mediare i contenuti ereditati in modo che i nuovi elementi si adattino ai vecchi, attraverso un processo “di razionalizzazione e di ricerca del significato”. Ciò che non ha più rilevanza è dimenticato ed il linguaggio si sviluppa in associazione alle “esperienze della comunità”. (4)

Goody e Watt nel loro excursus sull’alfabetizzazione analizzano la scrittura fonetica, superamento dell’oralità, che tende ad imitare il discorso umano e a simbolizzare “il processo di interazione umana nella conversazione”. La scrittura non fonetica registra e reifica quelle parti del repertorio culturale “che gli specialisti alfabeti hanno selezionato” e dato “un’espressione scritta”. Anche se la diffusione della scrittura produce alla lunga una “frattura tra i letterati e gli uomini della strada”. L’abilità, infatti, di servirsi della lettura e della scrittura rappresenta l’elemento di “differenziazione sociale nelle società moderne”: un elemento dunque di negazione del mito trasmesso. Ma i due autori cercano di negare la tensione quando affermano che nella cultura alfabeta la tradizione orale, “la trasmissione di valori e atteggiamenti mediante contatti faccia a faccia”, rimane il modo principale di “orientamento culturale”. E ciò perché la “comunicazione alfabeta” non riesce a porre con la stessa forza ciò che trasmette “la tradizione orale”. (5)

Attraverso quest’ultima, i racconti orali con efficacia riescono a fare sorridere ed al tempo stesso pensare. Dalle storie emergono i rapporti sociali e le relazioni interindividuali. Come afferma Margaret Mead, nella tradizione orale la società analfabeta mantiene una certa “continuità tra genitori e figli” mentre la società moderna crea discontinuità nel “rendere alfabeta il figlio dell’analfabeta”. Questa asserzione consente di affermare che in una situazione di cultura analfabeta “i modelli di pensiero, sentimento e azione del gruppo” implicano di aderire a quella tradizione o di isolarsi e vivere in solitudine così come accade nella cultura alfabeta. La lettura e “l’astrattezza del sillogismo” trascurano l’esperienza sociale e l’ambiente dell’individuo. (6)

Si sono evidenziate queste teorizzazioni per asserire che le comunità cilentane sono state interpretate in questo studio a volte come “comunità linguistiche”, nel senso inteso da Taylor quando afferma che, pur volendoci staccare dal contesto cui apparteniamo, per definire la nostra posizione non possiamo fare a meno di utilizzare il linguaggio condiviso entro i confini di quella comunità che ci ha formato. Questo è infatti l’unico modo per rendere le nostre idee comprensibili agli altri attraverso un atto discorsivo, dialogico, che presuppone la presenza di un interlocutore quale destinatario del messaggio. (7)

Gli studi più sistematici sul linguaggio cilentano sono stati compiuti negli anni trenta da Rohlfs e Ondis, che tuttavia hanno avuto opinioni contrastanti dovute all’utilizzo delle pronunce dei termini dialettali ed alla loro origine storica. (8)

Rohlfs ha diviso i dialetti del Cilento in due grandi raggruppamenti: il territorio settentrionale è molto più vicino al modello napoletano (che sente l’influsso delle varie dominazioni succedutesi), mentre quello del sud subisce le influenze dei dialetti meridionali, quelli greci, che hanno una certa organicità con la grecità calabro-lucana. Successivamente non sono mancati gli studiosi che hanno attribuito anche ai latini una importante evoluzione linguistica dell’intera area.

Se le teorizzazioni che riguardano le influenze napoletane a nord e greche al sud sono importanti, si può asserire che i fenomeni caratterizzanti le differenze linguistiche sono stati quello geografico (territorio interno / costa), che in ogni caso rispecchia le differenziazioni tracciate da Rohlfs, e quello legato allo sviluppo economico di un paese, che fa perdere non solo le forme dialettali più arcaiche ma anche le pronunce. (9)

I protagonisti delle storie raccolte nel territorio utilizzano un linguaggio variegato, dovuto all’affermazione di un italiano corrente in tutto il territorio. Molte espressioni perdono l’originaria pronuncia, sia quella evidenziata da Ondis che quella di Rohlfs, il cui lavoro è stato ripreso e ben strutturato dal puntuale saggio di Fernando la Greca sulle fiabe cilentane. (10)

Nei racconti si palesano alcuni vocaboli quasi incomprensibili per le nuove generazioni, che non ricordano ad esempio: i zambitti, i tipici calzari che i cilentani utilizzavano come scarpe e che invece per i giovanidiventano solo scarpuni perdendo il significato originario; i permenari, i lupi mannari; i spurtuni,i grossi cesti. La frase: ‘na vrancata r’alici indica una manciata di alici; ammacàre significa almeno; il rammaggio è il danno; ‘nzimma significa sopra; runfàre, russare; rente-rente, come altre espressioni rafforzative del discorso, vuole intendere che sfiora, si trova vicino a qualcosa.

I termini oggi meno usati sono: la spàra (il pezzo di stoffa utilizzato sovente dalle donne per trasportare oggetti pesanti); il traccarieddo (bastone di legno) e il tròccano, ovvero il ceppo che si poneva nel camino per mantenere vivo il fuoco. Abbuttàre (gonfiare e riempire), ‘mpulutrunìre (impigrire), sciarràre (litigare), jiencùto (riempito) sono parole non sempre di largo uso.

Molte espressioni dipendono dai mestieri svolti: i libbàni sono quei vegetali utilizzati a mò di corda per la coltivazione dei mitili. Gli abitanti di Agnone erano chiamati libbànari perché in massa si dedicavano a quel mestiere. Il termine càccavo (recipiente per realizzare il formaggio), ruòciulo (il mestolo per lavorare la toma), jungàne (i vegetali che permettono di realizzare le fascelle di vimini) sono legati al mondo agro-pastorale. I pescatori vanno a jacculiàre (pescare con le luci di notte); per catturare i pesci utilizzano barche che per l’uso e le dimensioni si chiamano: vuzzi e vuzzarieddi, lanze e lanzetedde, varche e varchetedde. Il lanzatùro è l’arpione, la fiocina per colpire i pesci.

Analizzando il linguaggio dei protagonisti, si notano le varie pronunce di alcuni termini utilizzati in tutto il territorio: gli aggettivi e i pronomi “quello” o “quella” e le loro forme plurali diventano, nei differenti paesi del territorio, chillo, chiddo, chiddu, chiro, chilli, chiddi, chiri, chelle, chedde, chéra, chére, etc… In genere il gruppo “ll” diventa “dd” a seconda delle zone.

Si usano poi, in base alle resistenze più o meno persistenti delle evoluzioni linguistiche, le lettere “b” o “v”: benuto, venuto, oppure “d” o “r”: don o ron, durece o rurece (il numero dodici), dico o rico.

Vi sono poi persone che per indicare una stessa parola pronunciano le vocali “e” o “i”: vecchiariello o vicchiariello, oppure “u” o “o”: cuntadino o contadino. Il suono di alcune espressioni a volte si presentano accentate ed altre no: soa o sòa, purtava o purtàva, matina o matìna. Si tratta in quest’ultimo caso di percezioni e sfumature del linguaggio nel racconto, sottolineate dall’enfasi con cui si presentano le storie.

Nel territorio è evidente poi l’utilizzo di parole in cui sono riportate le consonanti “c” al posto di “z” e “d” al posto di “l”: paccia invece di pazza; cancieddo invece di canciello (cancello).

Altri termini si presentano con i gruppi: “sc” o “ss”, ascìa o assìa (usciva). In alcuni paesi la “gu” invece diventa l’aferesi “u”, guaragno o uaragno (guadagno), guaità o uaità (piangere).

Ci sono altre parole che presentano aferesi: ‘mparare (imparare), ‘mbruogli (imbrogli); oppure: ‘nfucare o ‘mbucare (infuocare, mettersi vicino al fuoco, riscaldare). ‘Mbucare poi è intesa sia nel senso di imbucare, porre in buca, che di riscaldare.

Inoltre, alcune parole devono essere ascoltare attentamente. Basta un leggero cambiamento di accenti e di vocali per indicare termini molto distanti: vuojie (buoi), vujie (voi), vajie (vai); caro differisce da càro: il secondo termine significa “cado” (indicativo presente di cadere). (11)

Questi brevi esempi servono solo a rilevare come i cilentani nella loro lingua dialettale, che il passar del tempo contribuisce a modificare, sono accomunati da un linguaggio condiviso anche se mutante in alcune vocali, accenti e frasi che certamente si manifestano a seconda delle influenze più o meno evidenti subite.

Note:

  1. Su linguaggio, contesto e comunicazione, cfr.: G. Fele e P.P. Giglioli, 2000, “Linguaggio e contesto sociale”, Il Mulino; F. De Saussure, “Corso di linguistica generale”, 1967, Laterza; J. Habermas, 1986, “Teoria dell’agire comunicativo”, Il Mulino; L.S. Vygotskij, 1980, “Pensiero e linguaggio”, Giunti Barbera.
  2. J.J. Gumperz, “La comunità linguistica”, in “Linguaggio e contesto sociale”, cit., p.173.
  3. B. Bernstein, “Classe sociale, linguaggio e socializzazione”, in “Linguaggio e contesto sociale”, cit., pp.237-239.
  4. J. Goody, I. Watt, “Le conseguenze dell’alfabetizzazione”, in “Linguaggio e contesto sociale”, cit., pp. 287-289.
  5. Ivi, pp. 297-314.
  6. Ivi, pp. 314-315
  7. C. Taylor, 1993, “Multiculturalismo. La politica del riconoscimento”, Anabasi, pp. 47-48.
  8. G. Rohlfs, “Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento”, Congedo Editore, Galatina (LE), 1988, Ia Ediz. 1937; L. A. Ondis, “Fonologia del dialetto cilentano”, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo (SA) 1996, Ia Ediz. 1932.
  9. Gli studi più approfonditi sul dialetto sono quelli di: G. Rohlfs, “Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento”, cit.; M. Nigro, “Dizionario etimologico del dialetto cilentano”, Ed. CGM, Agropoli (SA) 1989; F. La Greca, “Il dialetto del Cilento nelle Fiabe Cilentane raccolte dalla tradizione orale”, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli (SA) 1994; L.A. Ondis, “Fonologia del dialetto cilentano”, cit.; I. Balbi, “Guida allo studio del dialetto cilentano (partendo da Roccagloriosa)”, Centro di Promozione Culturale per il Cilento, Acciaroli (SA) 2001.
  10. F. La Greca, “Il dialetto del Cilento nelle Fiabe Cilentane raccolte dalla tradizione orale”, cit.
  11. P. Martucci, “Le comunità cilentane del novecento”, Centro di Cultura e Studi Storici “ALBURNUS”, 2005.