Mi intervisto
“È l’Ora dell’Accoglienza e della Fraternità”
Il presente, dopo il coronavirus, o si accoglie e si fonda sul primato di Cristo,
segno e testimone della solidarietà, dei legami sociali, oppure…
Ci sostenga, ora, la Radice della Memoria e del Memoriale.
Oggi siamo a Pentecoste del terzo millennio.
Siamo la Chiesa di Pentecoste.
Costruiamo la Chiesa da Pentecoste.
Entriamo nella Pentecoste
Non è questo un secolo incerto e sospeso, è un secolo nuovo, e come la Chiesa Apostolica, così la Chiesa del terzo millennio, nel giorno di Pentecoste, avrà le parole dello Spirito per parlare, annunciare e testimoniare l’Evento vissuto a Pasqua.
Per iniziare dobbiamo aver compreso che non lottiamo contro, ma viviamo con e per il Bene comune.
Non bisogna attendere che non ci siano più provocazioni o ostilità, ma è indispensabile mettere al centro la Persona (Uomo), a prenderci cura, per scrivere il presente aperto al futuro.
L’uomo così potrà tornare a vivere di nuovo di relazioni significative.
Da metà Novecento il sogno del benessere portò generazioni intere a una migrazione verso la Città, simbolo del benessere, dell’agiatezza; oggi saremo o più semplicemente siamo chiamati a ritornare al Paese, ritornare a costruire e vivere intorno alla fontana del Villaggio, al cortile, alla costruzione di case in orizzontale: dobbiamo ritornare al cuore dell’uomo.
Dalle cattedrali da innalzare, alla Chiesa domestica da vivere e assaporare.
Oggi siamo di nuovo a un bivio, e come non ricordare qui la Didachè, che esortava a stare attenti alle due vie:
Due sono le vie, una della vita e una della morte, e la differenza è grande fra queste due vie. Ora questa è la via della vita: innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri… (cap. I, 1-2).
La via della morte invece è questa: prima di tutto essa è maligna e piena di maledizione: omicidi, adulteri, concupiscenze, fornicazioni, furti, idolatrie, sortilegi, venefici, rapine, false testimonianze, ipocrisie, doppiezza di cuore, frode, superbia, malizia, arroganza, avarizia, turpiloquio, invidia, insolenza, orgoglio, ostentazione… Guardatevi, o figli, da tutte queste colpe” (cap. V, 1).
Proseguendo sul parallelo delle vie aggiungerei, rispondendo sempre alle domande che mi sto ponendo, con la parabola di Luca dell’uomo ricco:
Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce verso Dio». (Luca 12,16-21)
Gesù racconta di questo ricco proprietario, che ha avuto un buon raccolto, i suoi magazzini sono già pieni e pensa di demolire i suoi granai per costruirne altri più grandi.
Un uomo così sarebbe certamente invidiato nella cultura materialista di oggi, ma la cosa triste non è il fatto che vuole ingrandire la proprietà, ma il carattere di questa persona e l’atteggiamento di come vuole usare le sue ricchezze. Lo scopo della vita di quest’uomo è avere una vita comoda e beata, il “mangiare, bere e darsi alla gioia” è un’espressione proverbiale dell’edonismo, vivere per il piacere egoistico. Luca insegna che nell’uso dei beni bisogna andare verso Dio e non verso sé stessi, cioè vivere nella logica del Vangelo e non dell’egoismo autoreferenziale. Possiamo costruire le cose più belle per gli altri, fare la carità più feconda, vivere da poveri in assoluto, ma se portiamo ogni cosa verso di noi e non verso Dio, allora pecchiamo di mondanità spirituale! È la logica del ricco stolto: accumula per sé e non usa i beni a favore degli altri e nella logica della condivisione.
Come non possiamo leggere tutto ciò nel nostro di tempo?
La sua prospettiva futura è completamente egoistica!
L’uomo era convinto che tutto, anche il suo futuro, fosse sotto il suo controllo e non aveva nessun bisogno di Dio, ma si cullava nella sicurezza falsa delle ricchezze. Come è vera questa parola!
Anche se le ricchezze aiutano a vivere meglio in questa vita, dopo la morte non serviranno a niente! (cfr. Giacomo 1,9-11; 5,1-6).
Per me oggi la Parola parla: Colui che accumula tesori per sé e non è ricco verso Dio, è stolto.
Gesù non condanna la ricchezza di quel tale, ma il suo uso, che è egoistico.
Nella concretezza della parabola, vediamo una serie di applicazioni.
- La prima è: non confidare in noi stessi e nelle cose materiali, ma in Dio.
- Nella concretezza della parabola, la seconda applicazione che possiamo fare nostra è: usiamo ciò che abbiamo per aiutare chi è nel bisogno.
- Nella concretezza della parabola, la terza applicazione che possiamo fare è: ringraziamo Dio per quello che ci ha dato.
Due sono e restano per me le vie oggi: o “ri-sentiamo” la mancanza della frenesia e del cumulo, o abbiamo “riscoperto” e desideriamo gioire e rallegrarci della bellezza del camminare lento, meravigliandoci, godendo e vivendo insieme.
L’oggi mi chiede ancora se vogliamo ripartire dal punto sospeso, dal momento dove siamo stati obbligati a fermarci, o cogliere la nuova opportunità di partire rinfrancati dal tempo trascorso con nuove attese, con una prospettiva e ambizione nuove…
Uniti, ora sì, dalla comune fragilità, una fragilità non più solo guardata nell’altro e mai toccata, ma quella emersa dall’esperienza quotidiana di chi deve fare i conti con la sua di povertà.
Siamo stati fermati mentre costruivamo la nostra Torre di Babele, affidandoci alle nostre forze-invincibili, con la scienza e la tecnica pronte a soccorrerci, abbiamo scoperto il bisogno di “quaresima”, di confrontarci, di conoscerci, di chiederci se è questa la vera Gioia o solo felicità umana, temporanea, fuggevole.
All’improvviso, quasi d’incanto, abbiamo scoperto di aver bisogno l’uno dell’altro, di doverci fidare l’uno dell’altro. Dovevamo darci la mano, non solo quella fisica, ma quella del cuore, della mente, delle parole sussurrate e non più gridate.
Non più un io proteso verso l’altro nel bisogno, ma una “connessione” di cui non possiamo più fare a meno. Ciò che è bene per lui, è il mio bene; quello che è male per lui può fare male anche a me.
Il bene e il male sono presenti e possono presentarsi in ciascuno di noi (ricordiamo la parabola del grano e della zizzania: non esiste una comunità pura al 100%).
Non sarà bello aver scoperto di avere costruito una realtà “fatta” solo in verticale; di aver vissuto sempre a schiena dritta, ma senza mai abbassarla per incontrare l’altro. Scoprire che l’oggi, il presente, ci racconta che per farcela dobbiamo abbassare lo sguardo, incrociare gli occhi dell’uomo, perché il nostro volto è coperto dai nostri egoismi, e dalla nostra avidità e noncuranza, dalla fretta di non perdere un traguardo, che è esistito forse solo nella nostra immaginazione.
Chiediamoci un po’ tutti da dove ri-partire. La risposta è: da me! Dall’impegno perché ogni io diventi e incontri un tu, perché è il NOI a costituirci nell’identità: è l’UNITÀ a offrirci la differenza.
Ritorna importante confrontarci con la nostra storia, storia di salvezza, ritornando all’origine.
Di nuovo, continuando a intervistarmi, mi soffermo sulla Parola:
La comunità dei credenti viveva unanime e concorde, e quelli che possedevano qualcosa non lo consideravano come proprio, ma mettevano insieme tutto quello che avevano. Gli apostoli annunziavano con convinzione e con forza che il Signore Gesù era risuscitato. Dio li sosteneva con la sua grazia. Tra i credenti nessuno mancava del necessario, perché quelli che possedevano campi o case li vendevano, e i soldi ricavati li mettevano a disposizione di tutti: li consegnavano agli apostoli e poi venivano distribuiti a ciascuno secondo le sue necessità. Ad esempio: un certo Giuseppe, un levita nato a Cipro che gli apostoli chiamavano Barnaba (cioè uno che infonde coraggio), aveva un campo, lo vendette e portò i soldi agli apostoli (Atti 4,32-37).
Come vivere questa Parola?
La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola. Penso a come i primi cristiani abbiano messo in comune i loro beni e ricordo l’importanza di partire da Cristo.
Quanto è vera questa parola, provando a rileggerla alla luce dell’Oggi. Scopro che con poche ma essenziali pennellate, Luca ci offre per l’oggi un ritratto ideale della Chiesa delle origini, sintetizzato in quel “un cuor solo e un’anima sola”.
Questo come altri passi del Nuovo Testamento lasciano intravvedere un tessuto umano non molto dissimile dall’attuale: intreccio di nobili tensioni e meschinità. Lo ritroviamo anche nel gruppo apostolico ancora vivente il Maestro.
Ciò però non faceva perdere di vista la meta. Quel “Padre che siano uno” riecheggiava nei cuori, mantenendo alta la tensione, così che le fragilità venivano, non scusate o sminuite, ma come riassorbite da quel più di amore a cui ognuno si sentiva chiamato.
Qui Luca mette l’accento sui bisogni materiali a cui si cercava di rispondere nel segno della carità. Paolo, a sua volta, metterà il dito sulla necessità di seguire con amore i più deboli, perché nessuno si perda. Modalità diverse di vivere la fraternità, prestando attenzione all’altro e pronti, all’occorrenza, a pagare di persona pur di soccorrere chi si fosse trovato in difficoltà.
In una parola, sono i cuori che si dilatano, così che ognuno accoglie e si sente accolto, comprende e si sente compreso. Le diversità permangono, ma i cuori si fondono in un unico slancio di amore che attinge a Cristo: è lui il fulcro, il centro di unità verso cui ognuno converge, apportando la ricchezza e anche il limite che lo definisce.
Solo partendo dalla Parola la Chiesa potrà chiamarsi ed essere Popolo di Dio. Saprà leggere il nostro tempo. Capirà che non potrà esserci uomo senza creato. Dio, nella sua Sapienza, creò il creato e dopo lo consegnò all’uomo perché lo abitasse e lo custodisse (cfr. Gen 2,15).
Mentre alziamo il nostro lamento, possiamo comprendere che: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai Tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti…”.
Ed ecco dove siamo arrivati.
Non è stato il destino a farci precipitare nell’attuale tragedia, ma unicamente le nostre sciagurate scelte. Non c’è da portare il sistema sul banco degli imputati, è un modo vecchio di non farsi carico della responsabilità, che invece è e resta tutta dell’uomo.
Chi mettiamo sul banco degli imputati? L’Uomo.
La globalizzazione ha portato all’universalizzazione dei rapporti umani e commerciali. Come siamo certi che ci sono stati e ci sono progressi nel pianeta, è certo pure che quando l’uomo non li governa, essi producono solo mercato, solo profitto. L’uomo che gode egoisticamente del benessere prodotto, contribuisce a non far crescere la democrazia e la solidarietà, allargando il fossato delle diseguaglianze e provocando dissesti drammatici nell’ambiente.
Chi mette mano all’aratro non deve perder tempo a ripensare modelli, ma mettere a servizio di sé stesso quanto oggi lui vive, la libertà della sequela, il rifiuto di farsi imprigionare in modelli che il mondo predispone per noi,
Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Luca 9,51-62).
C’è qualcosa di radicale, che viene chiesto all’uomo, nella vocazione a seguire Gesù (è una caratteristica di ogni cristiano autentico) che ci sconvolge. Si potrebbe essere tentati di invocare una particolarità di modo di pensare, perfino di linguaggio, per addolcire o stemperare gli argomenti del Vangelo. Eppure, abbiamo ogni interesse a prendere il Vangelo per ciò che è, e approfittare della sua freschezza, del suo vigore.
Seguire Cristo non è una cosa come un’altra, che si possa conciliare con esigenze parallele o contrarie. Chi intraprende questo cammino deve sapere fin dall’inizio che sarà il discepolo di un povero che non ha un luogo dove posare il capo, di un uomo che ha saputo non senza pericolo rompere certi legami, e che, una volta impegnatosi in una missione, non si è più guardato alle spalle.
Ci si abitua troppo facilmente a vedere i cristiani prendere e lasciare il messaggio evangelico; ora, questo disturba e deve disturbare il male che non cerca che di radicarsi in noi. Bisogna rinnovare il nostro impegno battesimale, ricevendo per oggi le dure parole di Gesù, e accettare coraggiosamente di essere dei discepoli che camminano sui suoi passi, sicuri di trovare, oltre il cammino pietroso, la felicità della vera vita.
Perché è così difficile annunciare il cristianesimo?
Il linguaggio dell’evangelista Luca aiuta a sfrondare la via cristiana da facili irenismi e, allo stesso tempo, a ripulire di soggettivismo e autoreferenzialità molta della prassi pastorale.
L’intero quadro biblico si svolge sulla strada, per via, procedendo da un luogo a un altro. È proprio una delle caratteristiche di Luca quella di porre Gesù in un atteggiamento di pellegrino, viandante che non percorre la via come mezzo per arrivare, ma quale stile esistenziale. E la strada non sempre è tracciabile, ma è già tracciata, oppure, indicata quale possibile tra diverse alternative. È proprio questo termine che evoca e segna tanto dell’agire pastorale.
“Se vuoi” è altrettanto vero che va chiesto all’uomo e non solo proposto, di prendersi a quattro mani la propria vita e capirne che farne e verso chi dirigerla.
Nel presente clima culturale e sociale il parlare deciso e sferzante di Gesù verso chi gli diceva di seguirlo lascia intendere che nel fare una scelta si deve guardare sia le conseguenze che le responsabilità.
C’è una tendenza ad adagiarsi sulle cose, beni, mentalità, usanze, che ci danno certezze per l’oggi, su quel già scelto “ora”, perdendo l’uomo la sana tensione di chi nell’oggi, liberandosi da schemi precostituiti, si prepara e risponde per il “domani”. In quel “non ha dove posare il capo” Gesù indica a quel tale (ognuno di noi) che l’essere suoi apostoli implica uno spogliarsi di schemi personali e aprirsi invece alla libertà di cuore, mente e spirito. “Dovunque tu vada”: spesso non ci si rende nemmeno conto di ciò che diciamo al Signore nella preghiera, non calibrando le parole con la capacità di portarle alla meta. Sono poi le “cose di casa” e di tutti i giorni a tenere ben stretta la persona alle proprie certezze. In quel padre da seppellire e nel congedo da quelli di casa Gesù non pone un aut aut come se volesse mostrare la sua insensibilità, tutt’altro: vi è un forte invito a rendere più maturo e qualificato il grado di discernimento e donazione. Se non c’è quel “seguimi” detto da Gesù che va a sbloccare ogni paura e timore sarà difficile un qualsiasi cammino dell’uomo e della donna.
Ri-Accogliere il cristianesimo significa accogliere Cristo e non l’idea che si ha di lui. L’aratro di cui parla Gesù è un attrezzo agricolo che non si limita a tagliare il terreno, ma ne rovescia la zolla, portando alla luce ciò che prima era nascosto. Mettere mano all’aratro in campo pastorale richiede la costante verifica di chi vi sia a trainare l’aratro e, soprattutto, verso chi e cosa si guardi avanti. Volgersi indietro, quasi a rifuggire dalla novità che Cristo sta per compiere, rallenta il passo verso l’ingresso a Gerusalemme.
Eravamo immersi nelle derive della nostalgia
La tentazione di voltarsi indietro a contemplare il passato è seducente, seducente quanto insidiosa e fatale. Ripiegarsi sul passato dei nostri padri, – vagheggiandone un ritorno – costituiva per alcuni nostalgici un rifiuto a vivere il presente, che se pur con tutti i suoi limiti aveva in sé tante potenzialità. Il ripiegarsi sul passato è stato spazzato da un piccolo virus che ci ha messo di fronte alla realtà e ha chiamato senza alcuna differenza ognuno a vivere e a rispondere all’oggi che si è presentato inaspettatamente nella propria vita, rispondere, questa volta noi, a una guerra e a un pericolo oscuro, invisibile, che non crea danni alle strutture e alle persone (vedi la guerra e il dopo guerra desiderato dai nostalgici), ma unicamente all’uomo, una sola parola: il coronavirus 19. Ha rimesso l’uomo con i piedi a terra e di fronte a un presente e a esso solo per camminare verso il futuro.
Richiamare gli antichi fasti è stato, ora ne siamo diventati ben consci, un anacronismo pericoloso: il passato di cui avere nostalgia è lontano, perché ne abbiamo uno di passato-presente, perché era unicamente organico a un sistema di valori, a una situazione sociale, economica, politica, a un costume che non è più quello di oggi.
All’uomo viene in soccorso ciò che invece non è mai passato: l’evento dell’Incarnazione, che ci aiuterà, dandoci la possibilità di coniugare al presente i disegni di Dio.
Gesù ci salva dal presente, non rifiutandolo, ma vivendolo in pienezza, portandone tutto il peso; ma soprattutto cogliendone i germi di rinnovamento che sono già presenti.
Naturalmente il nuovo corso, che sta prendendo la storia, non può essere invocato come scusa per fare quello che si vuole, ergendoci a legge di noi stessi. Anche la libertà ha le sue regole! Una libertà senza regole conduce all’anarchia, asseconda l’istinto e istiga alla prepotenza. Una libertà senza regole è addirittura contraria al principio di autoconservazione della specie. Una libertà senza regole porta alla morte.
Rispondendomi, devo chiosare che non esiste un modello che garantisce e garantirà sviluppo. L’unica garanzia sono e restano i Valori.
I Valori sono il garante, e saranno i Valori che diventeranno elemento irrinunciabile della convivenza tra gli uomini e i popoli, e faranno vivere in armonia con il creato.
Il presente, il dopo coronavirus, o si costruisce sul primato della solidarietà, dei legami sociali, del prendersi “cura” gli uni degli altri, e anche del prendersi “cura” dell’habitat e dell’ambiente, o non c’è affatto futuro sereno.
Per il cristiano
Il cristiano è cittadino del mondo pur non avendo il mondo come fine della sua vita; è chiamato a rispondere: “presente!”. Non deve preoccuparsi, intellettualmente, della libertà dell’altro qualunque essa sia, ma è chiamato a proclamare e a difendere la libertà che vive, e alla quale sente di partecipare. Non può assentarsi, non può guardare (solo) in alto, deve congiungere lo sguardo della terra con quello del cielo e non indietreggiare, deve testimoniare l’Incontro.
Il cristiano è chiamato ad abbracciare tutto l’uomo e a difendere e a far crescere il creato.
Il tempo quaresimale, la chiusura delle Chiese, l’impossibilità di accedere ai sacramenti è stato un atto di responsabilità, vissuto con sacrificio, coscienti di quanto ci siamo privati, porterà frutto o no secondo la coscientizzazione del singolo e della comunità nei confronti di quanto vissuto o subito, il nostro impegno o il disinteresse e l’abbandono, la opportunità o il fato…
Riprendere le celebrazioni con i fedeli non è un riprendersi un abito o un diritto, se non sarà vissuto come la opportunità di riandare alla fonte della vita del cristiano: l’Eucarestia, che è luogo dell’incontro, della relazione di un popolo: la Chiesa.
Abbiamo rivendicato un’apertura, ma siamo certi di desiderare l’Incontro con Colui che è Via, Verità e Vita?
Per molti questo è stato vissuto come tempo della sospensione, del rinvio al domani, e questo sicuramente creerà dei grossi problemi alla ripresa, ma tanti, in modi diversi, non si sono mai fermati, hanno accolto solo in modo diverso, ma non interrotto né il proprio essere, né tantomeno il proprio fare.
È con questi uomini e donne che la storia diventerà Storia di Salvezza, e ci condurrà alla Via Verità e Vita…
Don Marco Russo, Direttore Caritas Diocesana Salerno, Campagna, Acerno